di Gianluca Albanese
SIDERNO – “La casa sul confine dei ricordi. La stessa sempre, come tu la sai. E tu ricerchi là le tue radici.
Se vuoi capire l’anima che hai”. Sono i versi
di “Radici”, brano che apre e dà il titolo al celeberrimo album di Francesco
Guccini, pubblicato nel 1972.
Vengono in mente, anzi, sembrano il sottofondo di quella musica che si sente nella mente e nel cuore di ognuno di noi, leggendo “Sradicati. Alla riscoperta di un’umanità perduta” (Il filorosso, 2021) di Mimmo Panetta, sindaco di Siderno dal 1994 al 2001.
Il motivo è semplice: chi ha conosciuto (e vissuto) gli usi, i costumi, i ritmi, i profumi e i sapori della cultura contadina custodisce sempre nell’anima una casa sul confine dei ricordi, sia essa nell’Appennino tosco-emiliano di Pàvana o nella “ruga” Grappidaro di Siderno.
E allora, l’umanità perduta della quale l’autore propone una decisa e opportuna riscoperta, assume una duplice accezione: quella degli uomini strappati alle proprie radici familiari per tentare la fortuna oltreoceano nella speranza di dare ai propri figli un futuro migliore (come ricorda Mario Capanna nella prefazione di “Sradicati”); ma è anche e soprattutto quella dell’umanità intesa come autenticità nei rapporti interpersonali, tipica di quella cultura contadina che ora appare come relegata ai margini da una comunicazione di massa (vissuta soprattutto nei social network) in cui l’uomo contemporaneo appare omologato e standardizzato, con le sopracciglia rifatte nei volti dei nipoti di chi aveva il viso scottato dal sole, o le unghie smaltate e decorate delle ragazze le cui nonne infilavano tutto il giorno le mani nella terra.
Altri tempi e altri drammi quelli del tempo che fu.
Se è vero come è vero che chi ricostruì l’Italia dopo la guerra e la Locride dopo l’alluvione del ’51 seppe rimboccarsi le maniche senza distinzione di sesso, ceto sociale ed età, il libro di Panetta ci riporta in quei fatti “di campi, cortili e di strade” dove il senso di comunità era la vera ricchezza di quella gente, coi ritmi della natura a dettare il tempo di ogni anno che scorreva come una “Canzone dei dodici mesi” che non ti levi mai più dal cuore: il grano a giugno, i fichi d’estate, la vendemmia e la raccolta delle olive in autunno e il maiale d’inverno.
Erano tempi e luoghi in cui la cronaca nera locale riguardava solo il furto delle galline in una notte di tempesta e se qualche rapporto personale s’incrinava era solo perché quando quel giovane uomo dovette partire per emigrare in Canada non riuscì a far capire alla vicina di casa che aveva il figlio in Australia che non sarebbe mai riuscito a recapitargli quel pacco che lei aveva preparato con tanto amore. Perché a certe latitudini, quando si parte con la nave, si vaji ‘a ‘ Merica, senza poter contare su un mappamondo che indichi la distanza tra il Canada e l’Australia.
E tra quei ragazzi che partirono con la valigia di cartone e si staccarono da quell’ambiente così dolce nella sua semplicità, ci furono il padre (ritratto nella foto di copertina in una pausa del lavoro in Alaska e al quale è dedicato il libro) e il fratello dell’autore.
Dunque, “Sradicati”, un po’ autobiografia del tempo che fu e un po’ saggio di riflessioni sui grandi temi sempre attuali come umanità ed emigrazione, lascia al lettore un velo di nostalgia e tanti spunti di riflessione. Perché non si può pensare al futuro senza conoscere il passato, perché “La casa è come un punto di memoria. Le tue radici danno la saggezza. E proprio questa è forse la risposta. E provi un grande senso di dolcezza”.