di Gianluca Albanese
SIDERNO – “Questo nostro portarci dietro un’ombra – sia essa soltanto – di ciò che è stato e che potrebbe tornare a essere. Noi siamo gli equilibristi della vita: un passo falso e si cade e c’è subito pronto qualcuno a darci addosso. E se ti difendi si organizzano crociate”.
Sembrano parole scritte da un deportato ebreo in un campo di concentramento durante il nazismo. E invece sono state scritte sì da un ebreo, ma uomo libero (scrittore, giornalista, scultore, pittore e artista a tutto tondo) nel 1968. A testimonianza di come la condizione di ebreo continui a non essere facile. Nemmeno 50 anni e passa dopo.
L’ebreo in questione si chiamava Alberto Baumann, era il direttore de “L’Umanità”, organo di stampa del Partito Socialista Democratico Italiano. Una significativa raccolta dei suoi articoli, delle sue cronache e delle sue riflessioni aperte, alle quali dava il nome di “vagabondaggi” è offerta alla lettura dell’uomo contemporaneo dal figlio Alan Davìd Baumann (direttore della testata giornalista on line “L’Ideale” e fondatore dell’archivio Baumann e Fischer) che per la Città del Sole Edizioni ha appena pubblicato “La guerra dei 6 giorni non terminò con mio padre”.
Un titolo che la dice lunga sulla lettura storica del conflitto israelo-palestinese che non si esaurì con la fulminea azione militare, ma che prosegue in un contesto internazionale in cui non mancano strumentalizzazioni politiche, ignoranze e opportunismi di chi la storia vorrebbe scriverla (e soprattutto leggerla) pro domo sua.
Già, il contributo che l’opera di Baumann Senior offre al lettore è quello di indurlo a molteplici riflessioni su come la tentazione di ghettizzare un popolo continui ancora, nonostante la sconfitta storica della bestia nazista e, come “Solo da poco l’antisemitismo, l’antisraelianismo e l’antiebraismo sono stati riconosciuti come aventi la stessa radice razzista: 3 facce della stessa medaglia”.
Lo spiegava bene Alberto Baumann nei suoi scritti, intrisi di orgoglio di appartenenza ma anche di voglia di lottare contro l’ipocrisia di chi sposò le regioni della liberazione del popolo ebraico vittima delle leggi razziali solo per posizionamento opportunistico in chiave antinazista e antifascista, per poi ricollocarsi su posizioni filoarabe dalla Guerra dei 6 giorni in poi.
Comunista pentito, Alberto Baumann non esita – dal suo punto di vista – a evidenziare analogie e parallelismi tra la Germania Nazista e le posizioni della Lega Araba, evidenziandone le comuni caratteristiche di regimi illiberali, di persecuzione dei nemici politici, religiosi e ideologici e di come le carcerazioni forzate degli ebrei nell’Egitto di Nasser e in altri Paesi arabi dell’epoca (e le torture patite dai prigionieri nelle celle) non fossero molto diverse da quelle inflitte ai prigionieri dei campi di concentramento durante il nazismo.
Ovviamente, leggere gli scritti di Alfredo Baumann raccolti nel libro del figlio Alan Davìd (la cui introduzione è a cura di Lia Levi) non obbliga (e nemmeno induce) il lettore a prendere una parte o a sposare per forza una causa come quella degli ebrei. Semmai, aiuta a rileggere la Storia con le lenti dello spirito umanitario di chi cerca la verità e il rispetto degli uomini in quanto tali e indipendentemente dal credo professato o dagli schieramenti politici.
Perché la Storia senza una lettura umanitaria renderebbe vana perfino la celebrazione del Giorno della Memoria.