di Gianluca Albanese
SIDERNO – Fabio Macagnino lavora per la Calabria. Con l’uscita del suo nuovo album “Sangu” (prodotto da Sveva edizioni) il cantautore, musicista e performer teatrale nato in Germania e cresciuto a Focà di Caulonia, compie un’inversione a “U” nel suo percorso stilistico che lo aveva portato ad assumere un respiro internazionale (specie con “Cosmopolitana Mama” e “Candalia”) e affonda gli stivali sull’antica terra d’Enotria con alcune scelte nette e coraggiose: uso esclusivo del dialetto, abile manipolazione di modi di dire tradizionali e quasi totale dedizione al terzinato, declinato in tutte le sue forme. Per farlo, ha chiamato a sé il top del panorama dei musicisti calabresi, da Gabriele Albanese a Gino Giovannelli, da Salvatore Gullace a Francesco Loccisano, passando per Giuseppe Lucà, Federico Placanica e Andrea Simonetta, fino alle partecipazioni straordinarie di Daniel Cundari (voce recitante) e Sonia Totaro con la quale dà vita alla meravigliosa ballad “Fortuna”. E soprattutto Mujura, la cui impronta è più che evidente, visto che ne ha curato produzione artistica e arrangiamenti.
Dunque, niente esperanto, italiano, inglese, tedesco e sperimentazione stilistica. Fabio Macagnino torna dalla natìa “GerMagna” su una littorina che diventa protagonista dell’edizione “2.0” di “Catarinè” in cui gli riconosci quella satira sociale che ne ha sempre costituito uno dei migliori tratti distintivi, deciso a far ballare e scatenare chi, fino a oggi alzava il sedere da terra solo nel gran finale dei concerti con “Zzaffratatrance” diluita nell’irresistibile teoria dei “ringraziamenti” che dalle istituzioni locali arrivano sempre a “mulangiani sutt’ogghiu, pipi sutt’ogghiu, ogghiu sutt’ogghiu, ecc.”.
Per carità, il messaggio c’è sempre, ma per coglierlo devi acquistare l’album, dedicargli un ascolto concentrato e ripetuto e resistere alla tentazione di ballare. Perché all’apparenza quello che è sempre stato uno dei suoi bersagli preferiti (“’a tradizioni non si tocca”) sembra un imperativo categorico più che un manifesto iconoclasta di una certa calabresità conservatrice e tollerante di tutto ciò che è tradizione, compresi “mastru i ballu” e “rispettu”.
Insomma, la comunicazione più immediata che arriva è “si boi mu ‘ndi scialamu, venitindi” di “Gnignaru”, in cui la vecchia candalìa evolve in gioco (ritmato) di parole; così almeno verrà colto dall’ascoltatore meno attento alla profondità e più caciarone. Appare così nell’approccio col terzinato acido di “Eu non perdunu”, o nella sua naturale prosecuzione di “Cani Lordu”, nella “Tarantella Locca” che è un invito al pubblico a partecipare al coretto ossessivo e ipnotico del “ciciri e pasta” fino a “’ndri ndrà” in cui l’avversione alla malapianta della criminalità organizzata è “apertis verbis” senza ricorrere alle raffinate metafore di qualche anno fa dei “supermercati lavatrici, come vecchie meretrici”.
Poi c’è il Macagnino romantico di sempre che riconosci dal profumo di poesia. Lo ritrovi nel delicatissimo riff di “Fortuna”, degno del precedente di “Tarantella Nova” e in “Janestra mi fici”, una serenata che sembra la nipotina di “Jasmine Butterfly”. “Si fussi amuri” chiude l’album con una vena intimista di malinconia, che a Fabio ha sempre dato buoni frutti, da “’Mpernu” in poi.
Inutile (e onanistico) immaginare una divisione tra gli amanti del Macagnino raffinato, delicato e a vocazione internazionale e quelli che invece preferiscono questa svolta verace che appare come ossequiosa verso la tarantella secca e tradizionale. Preferiamo pensare che chi si avvicinerà per scatenarsi con la seconda, col tempo imparerà ad apprezzare anche la produzione meno immediata e più elaborata dell’artista di Focà.
Perché ai suoi concerti ci si diverte. E sarà così anche alla prima serata di “Immersi nel Blu”, il festival del Rione Sbarre di Siderno laddove Macagnino si esibirà la sera di venerdì 29. Si voliti mu vi scialati, venitivindi.