di Vito Pirruccio*
Decido di scrivere una riflessione sul dibattito scaturito a seguito della nuova denominazione “Ministero dell’Istruzione e del Merito” assegnata al M.I. dalla neonata compagine governativa guidata dall’on. Giorgia Meloni.
Lo faccio nel mentre è in corso il dibattito sulla fiducia al nuovo Governo e desidererei, appunto, operare auspici piuttosto che delineare giudizi, stroncatori o meno, inopportuni in assenza di vere e proprie azioni di governo.
Non mi piace, infatti, il dibattito sul niente o sui titoli che possono dire tutto e il contrario di tutto, in assenza di linee e scelte di governo quanto mai necessarie visto lo stato comatoso in cui versa da un ventennio la Scuola italiana, Università compresa (anche se quest’ultima ha mantenuto la vecchia denominazione non vuol dire che è meno bisognosa di interventi declinati sul versante del merito).
La Scuola nella sua accezione più ampia, comprensiva, quindi, dell’Università, è stata la più grande conquista sociale dal dopoguerra ad oggi e l’unico motore di ascensore sociale attivato concretamente dalla democrazia italiana in attuazione del famoso art. 3 della Costituzione.
Un motore andato al massimo fino agli anni ’70 e costantemente ingrippato a partire dagli anni del riflusso fino ai giorni nostri definibili, a mio parere, “anni del regresso”.
Il pensiero pedagogico che ha sorretto e sostenuto la Scuola “Inclusiva”, nata con la Repubblica democratica, ha edificato un impianto educativo-formativo che ha tirato fuori dalla marginalità sociale, economica e culturale la gran massa del popolo e proiettato nei vari campi del sapere e dello sviluppo della società quei ceti sociali ai quali storicamente era stato precluso l’accesso, perché privi di mezzi, ai gradi più alti degli studi e, quindi, della collocazione sociale (Art. 34 della Costituzione).
La Scuola pre-’68, tanto per identificare il primo blocco dell’evoluzione della scuola repubblicana, viene erroneamente etichettata “del merito”, perché conservava al suo interno il tratto marcato della selettività dato dal tasso medio di “bocciature” presente, persino, nella scuola di base (che, guarda caso, si sposava quasi sempre con la marginalità sociale).
In realtà, però, il suo impianto e la sua missione nel complesso rispondevano, anche in questo primo blocco evolutivo scolastico, al principio cardine dell’art. 3 della Costituzione e tali sono rimasti fino a quando, purtroppo, la scuola ha perso nella sostanza il suo connotato “inclusivo” diventando il porto di mare odierno, frutto principalmente del reclutamento per sanatoria; per titoli inflazionati conseguiti a gogò (in parte partoriti, anche, durante i governi di centro-destra), senza alcun controllo; con la cultura diventata optional.
Oggi, nel pieno della crisi, la Scuola è diventata uno sfasciume pendulo sul mare di una società in perenne ricerca di identità.
Dentro le sue aule si respira sempre meno serietà professionale a tutti i livelli e la proletarizzazione del corpo insegnante è la cartina di tornasole della crisi generale del sistema formativo italiano.
E non parliamo delle cronache quotidiane che vedono la scuola sfregiata dal teppismo e dalla maleducazione imperante con uno Stato spettatore ignavo.
La Scuola se perde la sua missione inclusiva, come ci ha insegnato Don Lorenzo Milani, “non è più scuola.
È un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
Pertanto, se merito sta per immissione di professionalità preparate al compito difficile di formare ed educare, è una manna che aspettiamo da tempo.
Se, invece, merito sta per scorciatoia formativa di scuola-tribunale di promozione dei “bravi” e di collocazione in corsie secondarie dei “non bravi”, non chiamiamola più scuola, ma podio delle performance.
Col risultato di avere una società più segnata da differenze abissali e con molte sorprese.
Chi ha vissuto da insegnante dentro la scuola è testimone di moltissime bocciature dalla vita a dispetto di promozioni brillanti da parte della scuola e viceversa: segno che è la vita che promuove e boccia e le aule scolastiche devono compiere il compito arduo, ma fondamentale, di preparare la strada e segnare le pietre d’inciampo.
Se quell’aggiunta “Merito” nella denominazione ministeriale sta, ripeto, per entrata a scuola di personale all’altezza della missione formativo-educativa (unitamente ad investimenti mirati e consistenti per la realizzazione di ambienti educativi che siano tali non solo per nome e remunerazioni legate al merito, ma in linea con quelle europee di riferimento), ben venga!
Se, invece, sta per elevazione degli elevati, il Ministero dell’Istruzione consegni la chiave ai nuovi signori della ricchezza e del potere e si rassegni a costruire una società di riserve indiane, ammesso che regga alle prove della Storia.
La Scuola ha perso di significato inclusivo, perché dentro è entrato (si badi bene: È ENTRATO) sempre meno il merito (Riferito, però, a tutto il personale che dentro vi opera, non tanto alle bocciature che non rappresentano la certificazione della qualità, semmai il suo contrario) con la caduta verticale in uscita in termini dei livelli d’apprendimento.
In pratica, allegra sfornata periodica di provvedimenti di reclutamento, con tutte le varianti fatte di sanatorie, quiz e quant’altro, non hanno prodotto altro che “dispersione implicita” che è il vero dramma della scuola italiana, specie meridionale.
I dati INVALSI lo confermano.
Quindi, aggrovigliarsi su denominazioni lascia il tempo che trova.
La nuova compagine di Governo intende immettere nel sistema scolastico merito professionale (Dirigenti, docenti e non-docenti) e non assunzioni a pioggia, peggio ancora “con rete a strascico”?
Ben venga questa tipologia di merito!
Se punta a riprodurre le scene viste nell’ultimo ventennio (destra e sinistra pari sono stati) con una Scuola modello ufficio di collocamento, può scordarsi il merito, perché protrarrà sine die l’agonia del sistema scolastico.
Lo stesso farà se opterà l’errata interpretazione, secondo il mio modestissimo parere, di considerare merito l’introduzione del piglio severo della bocciatura, peggio se affidato a “insegnanti-giudici” che, restando inalterato l’impianto di reclutamento, sono sempre più giudici senza bilancia e meno insegnanti autorevoli e responsabili.
Quindi, lascerei stare le semplificazioni aggiuntive alla denominazione ministeriale.
Darei, comunque, credito alle buone intenzioni e lascerei il giudizio a tempo debito, quando l’azione di Governo verrà espletata e si è in possesso di elementi oggettivi di giudizio.
Parlare per pregiudizio è sempre settario e fuorviante.
Mi interessa, infine, puntare la riflessione sull’inclusività.
Su questo terreno occorre misurare il merito.
Non voglio qui scomodare Dewey e Don Milani (quest’anno il nostro Don Lorenzo sarà particolarmente presente nel dibattito culturale e pedagogico italiano, perché ricorre, il 27 maggio 2023, il centenario della nascita e vi preannuncio che, come Associazione “I Care!”, il 27 maggio p.v., avremo un incontro con mons. Luigi Renna, arcivescovo di Catania, autore della lettera pastorale: “Un sogno: che Rosso Malpelo incontri don Milani” centrata proprio sulla dispersione scolastica).
L’impresa educativa, come scrive Tommaso Cozzi in merito all’opera di J. Dewey, “è la coscienza critica della società, il momento e il luogo in cui la società si interroga su se stessa. Il senso del rispetto della dignità umana, il bisogno di contrasto alle disuguaglianze etniche e di genere, il bisogno di ricostruire le condizioni per l’esercizio di una giustizia sociale, devono necessariamente far parte dell’ambito educativo delle giovani generazioni verso un orizzonte sociale e politico che vede l’inclusione del diverso, l’esercizio dell’empatia e l’attenzione all’equità come assi caratterizzanti di un nuovo welfare attivo e responsabile”.
Ciò richiede una scuola capace di costruire personalità in grado di “superare gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” e non una scuola tribunale che si offre a valle del processo formativo e che registri il merito, invece di costruirlo.
La scuola, in pratica, ha bisogno di ottimi costruttori-promotori di merito e non solo di adeguati selezionatori del merito.
Questo messaggio, a mio modestissimo parere, deve passare nel riassunto in cima alla denominazione ministeriale.
Infine, mi chiedo per quale motivo associare il merito al M.I. e non al Ministero dell’Università.
Forse, si dà per scontato che il processo meritocratico sia prevalente in abbondanza in ambito universitario? Non mi pare!
L’altro vulnus che ha colpito la scuola italiana proviene proprio da questo segmento formativo.
Si pensi alla galassia anarchica degli indirizzi universitari di natura statale, privata, digitale, nazionale e straniera (con l’inconcludente permanenza “innovativa” della laurea triennale senza alcun valore esplicito e senza ricadute spendibile sul mercato del lavoro), che sta immettendo nella scuola (e, non solo) una sfornata continua di modelli abilitanti più improntati alla quantità che alla qualità e che molti danni sta causando al sistema formativo nella colpevole ignavia di uno Stato spettatore.
Mi chiedo: “Si può promuovere e pretendere il merito con personale proveniente da tale formazione universitaria?”
Ho molti dubbi e spero che più che ricorrere al merito nella denominazione ministeriale, lo si vada a stanare negli ambienti preposti all’alta formazione del personale.
È questo l’anello debole della catena che impedisce di produrre merito nella scuola e nei vari segmenti produttivi del Paese.
Scorciatoie nominalistiche alimentano aspettative o allarmi, ma non aiutano a venire fuori dal guado.
La scuola ha una sola emergenza: gli alunni che perde, la cosiddetta “dispersione implicita” più grave di quella “esplicita”, perché certifica non solo il fallimento dello Stato sociale, ma il fallimento della Scuola che appare, parafrasando don Milani, un ospedale che più che sanare aggrava lo stato di salute del paziente.
C’è, quindi, poco da semplificare e molto da approfondire e, poi, …. potremmo aggiungere “merito” alla denominazione del Ministero dell’Istruzione riportando in vi(s)ta, semmai, quel “Pubblica” che non guasterebbe affatto.
Presidente “I Care”