di Gianluca Albanese (foto www.ilquotidianodellacalabria.it)
SIDERNO – “Le “primarie” della cosca Commisso per la scelta del candidato sindaco”. S’intitola proprio così un paragrafo dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa a carico dei 29 soggetti sottoposti a misure restrittive nelle primissime ore di martedì 9, quando gli uomini dello Sco e della Questura di Reggio Calabria portavano a compimento l’operazione nota come “La morsa sugli appalti pubblici”.
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E se il termine “primarie” usato in quest’accezione farebbe inorridire i sostenitori di questo strumento di selezione della classe dirigente, non c’è dubbio che la scelta del candidato sindaco sul quale convogliare i consensi della potente consorteria criminale sidernese passò anche attraverso una riunione in una struttura alberghiera di contrada Pantaleo, laddove i boss della “società” sidernese si riunirono per individuare il candidato da appoggiare.
Le rilevanze di processi come “Recupero-Bene Comune” e “Falsa Politica” hanno sempre messo in evidenza che i Commisso e i loro generali puntarono, per la scelta del candidato sindaco da appoggiare, sul pidiellino Riccardo Ritorto, che vinse le elezioni del maggio 2011; quanto emerge dalla lettura delle pagine dalla 454 alla 458 evidenzia che in realtà furono almeno due i candidati al vaglio dei partecipanti al summit. Entrambi pidiellini. Entrambi medici. Se la maggioranza dei “mammasantissima” era orientata su Ritorto, infatti, almeno all’inizio, ovvero nei primi mesi che seguirono la caduta dell’amministrazione retta da Alessandro Figliomeni (per lui una condanna in primo grado a 12 anni nel processo “Recupero-Bene Comune”), ci fu una “corrente” – giusto per rimanere nell’ambito della terminologia politica – che gli avrebbe preferito nel ruolo l’ex presidente del consiglio comunale Antonio Macrì, arrestato martedì scorso.
Lo si evince da un’intercettazione ambientale del 21 maggio 2010, in cui il boss di contrada Ferraro Carmelo Muià detto “Mino” racconta dell’esito di quel summit a sfondo politico, spiegando che due suoi omologhi come Antonio Galea e Cosimo Figliomeni detto “u Briganti” avevano sottoscritto la candidatura di Antonio “Totò” Macrì, tanto da suscitare qualche attrito tra i boss cittadini. Alla fine la spuntò la candidatura di Ritorto, che venne accettata da tutti, quasi in ossequio ad una sorta di rivisitazione paesana del centralismo democratico.
Tornando a Totò Macrì, arrestato l’altro ieri, erano note le sue frequentazioni coi boss Commisso Giuseppe classe ’47 detto “il mastro” e Commisso Antonio classe ’25 detto “u Quagghia”. In particolare, fu proprio l’anziano patriarca sidernese uno dei più grandi elettori del medico che dal 2006 al 2010 sedette sullo scranno più prestigioso dell’emiciclo sito nella sala consiliare.
Lo si evince dalle intercettazioni contenute nella stessa ordinanza di custodia cautelare, tanto che sempre Commisso Antonio ci rimase molto male quando seppe da terzi e non dalla viva voce del suo pupillo, che Macrì fu tra gli artefici della caduta dell’amministrazione Figliomeni, presa una domenica notte d’inizio marzo nel 2010 attraverso lo strumento delle dimissioni della maggioranza dei consiglieri protocollate l’indomani in municipio.
Non proprio il massimo della lealtà politica, ma in quella maggioranza, e nel suo entourage, spesso si ricorreva a forme singolari di confronto per dirimere le questioni più spinose.
Fu così quando si doveva nominare il difensore civico del Comune. La scelta, come si sa, ricadde sull’avvocato Vincenzo Bruzzese, che era sostenuto, tra gli altri, dal sindaco Alessandro Figliomeni e dal suo amico personale e di partito Pino Scarfò; quest’ultimo, seppe che Totò Macrì era contrario alla scelta dell’avvocato Bruzzese nel ruolo di difensore civico, e non la prese per niente bene, tanto che lo stesso Macrì racconta, in un’altra intercettazione ambientale, di aver ricevuto un pugno proprio da Pino Scarfò.
Corsi e ricorsi storici. Qualche anno dopo, poi, lo stesso Pino Scarfò si creò delle antipatie in seno alla ‘ndrangheta sidernese, almeno nel ramo “maggioritario” che fa capo a Giuseppe Commisso detto “il mastro” che mal digerì la sua fedeltà all’ex sindaco Sandro Figliomeni. Un atteggiamento, quello di Scarfò, che al boss di Ferraro Mino Muià non andò a genio, tanto che auspicò una sua punizione per mano di Coluccio Salvatore classe ’67, nipote dello stesso Scarfò. Una proposta, quella di Muià che ottenne l’avallo preventivo del mastro, che disse che aveva già mandato a Salvatore Coluccio una “’mbasciata” mediante il boss di Marina di Gioiosa Rocco Aquino.
Sono solo alcune delle curiosità contenute nelle 1215 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere dell’operazione “La morsa sugli appalti pubblici”, con particolare riferimento ai rapporti tra ‘ndrangheta e politica, che nelle prime pagine del capitolo ad hoc ricorda che “pur in presenza di elementi sintomatici del reato elettorale e/o del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, non si ritenne, allo stato delle indagini ed alla stregua dei criteri sopra esposti, la sussistenza di quella gravità indiziaria richiesta dal Codice di rito per l’applicazione di misure cautelari in relazione a personaggi quali Gioffrè Saverio, Verbeni Roberto, Ritorto Riccardo, Crinò Pietro, Racco Luciano, Barranca Domenico, e lo stesso Macrì Antonio, che pure risultavano – è scritto nell’ordinanza – essere entrati in contatto con l’organizzazione, ma in relazione ai quali, sulla base di quanto emerso dalle investigazioni, non si ravvisarono quegli aspetti che, per la giurisprudenza sopra richiamata, consentivano all’epoca di elevare le contestazioni in discorso”.
Diverso il discorso per Totò Macrì: “Il successivo approfondimento – è scritto ancora nell’ordinanza – dei rapporti tra il Macrì Antonio e la famiglia Commisso, l’individuazione di una serie ulteriore di contatti tra il medesimo e Commisso Giuseppe il mastro, la ricostruzione di un viaggio in Argentina del Macrì e del mastro in occasione del quale incontreranno il latitante Commisso Francesco inteso “Ciccio di Grazia”, l’appoggio fornito, nell’esercizio delle sue funzioni e su imput dell’allora Sindaco Figliomeni Alessandro, al vecchio boss Archinà Rocco Carlo (la cui appartenenza al sodalizio è dimostrata dalla presente indagine), lo stesso interrogatorio dell’indagato forniscono oggi nuovi elementi per una rivalutazione del quadro indiziario a carico del Macrì, nei cui confronti – conclude il paragrafo – oggi si richiede l’applicazione di provvedimento custodiale per il reato associativo”.