ROCCELLA IONICA – I più ricordano la sua partecipazione a fortunatissimi film di Leonardo Pieraccioni come “Il Ciclone” e “Fuochi d’artificio”, quando interpretava il ruolo del calabrese ruspante che esclamava «Eh, lupu!». Ma Gianni Pellegrino è un attore a tutto tondo, che ha lavorato con artisti del calibro di Dino Risi, Paolo Villaggio, Mario Monicelli e che è rimasto particolarmente affezionato al film “Belli al bar” di Alessandro Benvenuti. Toccherà a lui aprire, col workshop sul monologo comico, il I festival del monologo teatrale, in programma al circolo culturale “El Ombligo de la luna” in programma il prossimo 14 novembre.
{loadposition articolointerno, rounded}
Lo abbiamo raggiunto per rivolgergli qualche domanda in vista dell’importante appuntamento artistico.
Hai girato 70 film, hai fatto tantissimo teatro e hai scritto anche un libro. In quale di questi ruoli ti senti più a tuo agio?
«Nel ruolo del porco, anche se non lo mangio più. Scherzi a parte, tra i tanti personaggi, quello che mi calza meglio è quello di Sua Maestà il Re Peperoncino, che sto portando avanti con l’accademia del peperoncino di Diamante. Potenza ed Energia mi rappresentano come carattere piccante. Mi chiamano “Gianni Pazzesco” al mio paese. Ho una jazz band e sono direttore di due-tre festival. Amo la trasgressione simpatica e mai volgare, che mi fa stare bene. Amo i personaggi profondi ma scherzosi, non mi piace essere considerato un semplice cabarettista».
Qual è la principale dote che serve a chi deve condurre un monologo teatrale?
«Senso del ritmo, della musica e soprattutto capire chi hai di fronte. Il monologo cambia a seconda di chi hai come audience. La stessa battuta fatta di un Jazz club o alla festa della Madonna del Carmine hanno un impatto diverso. Il ritmo e la musicalità non te li insegna nessuno, ce li devi avere innati».
Quanto conta il feeling col pubblico?
«Si può e si deve costruire per il bene di entrambi. Dico spesso a chi viene a seguire i miei spettacoli che non voglio applausi ma la sua attenzione che però mi devo guadagnare. Ed è molto più soddisfacente. E’ un’osmosi che eleva al quadrato l’energia ogni volta che si applaude. Non s’improvvisa senza conoscenza. La principale palestra sono le piazze e le strade laddove la gente può anche passare per caso e non è scontato che ti diano l’attenzione che è necessaria. Siamo attori, non musicisti. Più esperienze si fanno e meglio è».
Quale consiglio ti senti di dare a chi parteciperà al festival del monologo teatrale in programma a novembre?
«Non esiste il mestiere del monologante. Chi arriva a fare monologhi lo fa per scelta all’interno di una carriera in cui hai maturato altre esperienze. Ti ci ritrovi perché stai meglio così o vuoi sfidare te stesso. Dario Fo non avrebbe difficoltà a lavorare con altra gente ma fa i monologhi perché la sua carriera lo ha portato a pensare che gestisce tutto meglio in prima persona. Il consiglio è quello di studiare e non mi stancherò mai di dirlo. Fatevi pure un paio di domande sul perché si vuole far questo mestiere. Sicuramente perchè ti fare stare bene. Io non faccio solo monologhi, ma le cose più importanti le ho fatte da solo. E qualcosa vorrà pur dire».