di Patrizia Massara Di Nallo
SANREMO – Gian Paolo Tagliavia, AD di Rai Pubblicità, a consuntivo dell’edizione 2024 ha detto che l’impatto economico complessivo dell’evento Sanremo quest’anno vale 205 milioni di euro, dei quali 60 milioni e 182 mila euro di raccolta pubblicitaria. Quindi dal Festival di Sanremo, novello Taylor Swift italiano, pare sia arrivata addirittura una spinta al Pil e all’occupazione. Comunque, parafrasando il simbolo principe di Sanremo, non son state tutte rose e fiori, considerando gli onnipresenti bouquets che perdevano petali e foglie tra le mani degli omaggianti e omaggiati.
Attenti a tutto, dall’abbigliamento ai testi e alle musiche, dalla scenografia alle luci e chi più ne ha più ne metta, sembra che nessuno si sia accorto della plateale gaffe di Fiorello nell’ultima serata. Colto di sorpresa da un intervento di Amadeus che si è materializzato alle sue spalle, si è lasciato scappare un inequivocabile e sonoro improperio nei confronti dell’amico conduttore, salvo poi scomparire dietro le quinte e riapparire senza scusarsi con il pubblico presente e con quello da casa o almeno ridimensionare l’infelice espressione agli occhi dei più giovani, spugne onnivore.
Per non parlare di tutte le parolacce in siciliano disseminate qua e là come un normale intercalare, alla Montalbano di Camilleri. Ma quella è letteratura, non linguaggio colloquiale! Le parolacce sono state sdoganate anche nel programma più seguito della rete ammiraglia RAI?
La comicità di Fiorello, conduttore e show man, è semplice e coinvolgente, ma la simpatia nei suoi confronti non deve offuscare l’obiettività, se non altro per preservare dalla deriva verso una generalizzata televisione spazzatura. Comunque nel complesso è doveroso un plauso a tutti e all’intero carrozzone mediatico che, fra il commovente intervento di Allevi e la lettera degli agricoltori, fra voti troppo frammentati e poco democratici di un discutibile metodo di votazione, fra cantanti coperti di peluches e piumini e quelli oltremodo accaldati, fra balletti più impegnati e quello ridicolo del qua qua, fra sponsors alla spasmodica ricerca di spazi per mare e per terra e palchi disseminati ovunque, ha, anche quest’anno, calamitato l’attenzione degli spettatori fino alle ore piccole. Apprezzabilissima l’orchestra, diretta dal Maestro De Amicis, che, durante le sue magnifiche e impeccabili esecuzioni, ha donato indistintamente un ampio respiro strumentale e dignità sonora a canzoni strutturate e destrutturate, a canzonette musicalmente adatte allo Zecchino d’Oro e ad altre dal testo autobiografico o poetico, a brani classicheggianti e tormentoni che ci accompagneranno fino all’estate.
Nonostante la musica abbia sovrastato le voci dei cantanti eufemisticamente meno esperti, sono tornate in auge le “lamette” e si è fatto troppo spesso riferimento alle “corone di spine”, mentre il disagio personale e collettivo dovrebbe trovare altre strade per raffigurarsi e sempre con rispettosa misura di tutte le sensibilità. La canzone, forma di espressione artistica tra le più antiche, nella contaminazione fra i vari generi si è evoluta arricchendosi e rinnovandosi musicalmente e testualmente e di questo ce ne accorgiamo ogni anno a Sanremo dove la libertà artistica riflette la multiforme società odierna, la melodia classica trasla sempre più in ritmi sincopati e i testi, che talvolta seguono più il ritmo della logica, smascherano una scrittura a tratti confusa, ma interessante. Eppure la metrica e la rima, così come strofa e ritornello nettamente divisi, sono stati banditi e considerati obsoleti già da molti anni. Un simpatico calderone per far spaziare l’estro o per neutralizzare la critica musicale?