di Patrizia Massara Di Nallo
Povero Pericle! Qualcuno è anche arrivato a dubitare che la democrazia sia il più giusto (o almeno il meno ingiusto) dei governi esistenti. Nata, almeno nel VII sec. a.C. in Grecia, si è diffusa o è stata “democraticamente” esportata (non sempre) in altre parti del mondo. Eppure sembra che i leader occidentali, discendenti morali della democratica culla classica, non riescano più a rappresentare la volontà popolare e forse nemmeno la maggioranza di essa, provocando, da tempo, sempre più crescente disaffezione verso la politica e manifestazioni di malcontento (peraltro in aumento sia in Europa che negli Stati Uniti).
E, come se ciò non bastasse, le varie leadership esprimono una politica estera non solo legittimamente eterogenea, ma anche frammentaria e, a tratti, disgregante per la volontà dei singoli governi di portare avanti, in ordine sparso, un disegno spesso disinvolto e quasi sempre svincolato dagli altri partner europei. Quest’ultimo atteggiamento non regala credibilità né ai singoli né all’Europa sempre più debole, inascoltata e, quindi, ininfluente sullo scacchiere mondiale.
Non è trascorso neanche un secolo, dall’ultima Guerra Mondiale, che il Patto Atlantico è entrato in crisi e la Nato appare sovente in procinto di implodere. Per non parlare dell’ ONU (o in realtà del suo fantasma), divenuto solamente un banco di retorica per esternare idee, fare proclami e guardarsi in cagnesco. Da quando l’asse economico Parigi – Berlino si è incrinato, Macron e Sholz cercano di salvare il salvabile dei consensi interni, mentre la Gran Bretagna continua a viaggiare su un binario autoreferenziale, isolato e, a tratti, con fermate schizofreniche.
Nel frattempo gli altri Paesi, essendo la politica e l’economia due vasi strettamente comunicanti, continuano a sacrificare i trattati europei, in definitiva senza troppi rimorsi, interpretandoli ad libitum in base alle priorità di ognuno. Ciò spiega il corto circuito che ha innescato il progressivo inquinamento dei nobili ideali democratici e lo sguardo sgomento e disorientato, obtorto collo, verso modelli di governo oligarchici o dittatoriali. Infatti, di fronte a cotanta indecisione e debolezza politica dell’Europa, alcuni politologi si interrogano, forse per provocare un sussulto di dignità europea, quale tipologia di governo possa oggi interpretare al meglio le ragioni economiche dei popoli. Non ci si domanda più se sia definitivamente naufragato il sogno di Spinelli, ma addirittura, se i regimi totalitari, attualmente più compatti in politica estera, avranno la meglio sull’economia delle democrazie.
L’opinione pubblica, memore dell’ultima esperienza bellica che dai libri di storia si erge a monito dell’Umanità, spera che l’Europa metta in campo idee di pace concrete e concretizzabili e non si barcameni in una politica ipocrita e poco lungimirante. Occorre anche considerare che, nel giro di pochi anni, oltre alle due guerre, scoppiate una ai confini europei e una in Medio Oriente, è già iniziata, in un mondo globalizzato e interconnesso, una terza guerra subdola e pervasiva, quella tecnologica, che ci coinvolge tutti. Dato che le innumerevoli guerre africane e le altrettante rivoluzioni interne nel resto del mondo non ci hanno mai toccato da vicino, eccetto che per gli incessanti appelli del Papa alla pace, ci siamo svegliati all’improvviso quando si è materializzato il tentativo di stravolgimento dell’assetto geopolitico, basato finora sulla predominanza e onnipresenza degli Stati Uniti d’America, in favore degli egemonici interessi soprattutto economici dei Paesi orientali.
Le trame segrete, che sembravano definitivamente consegnate al cinema ed alla fantasia popolare, sono ordite più o meno palesemente svelando la strategia di superpotenze, quali Cina e Russia, di rifornirsi vicendevolmente di armamenti bellici e materie prime conquistando, al contempo, fette sempre più larghe dei mercati internazionali. Timeo Danaos et dona ferentes (temo i Greci anche quando portano doni) faceva dire Virgilio a Lacoonte in riferimento al cavallo di Troia e, volendo quindi attingere dalle civiltà classiche, senza nulla togliere alla proverbiale saggezza orientale, quelli che oggi appaiono come pseudo-alleati di comodo, potrebbero un domani voltarsi le spalle a vicenda in base al soffiare dei venti. Sembra che molto dipenda dall’esito delle famigerate elezioni americane che porterebbero il colosso a stelle e strisce e dai piedi d’argilla, da un versante, ad interessarsi o meno dell’Europa e, dall’altro, a supportare o a togliere l’appoggio alle insensate guerre israeliane che stanno estirpando la zizzania insieme con le spighe di grano. Secondo alcuni politologi (oggi si moltiplicano come gli infettivologi durante il Covid), sia che vincano i Democratici sia che abbiano la meglio i Repubblicani, la apparentemente tiepida politica estera americana, di oggi, non dovrebbe cambiare di molto. Infatti, a frenare il rigurgito di fratellanza nei confronti del Vecchio Continente, sarebbe il dissenso interno dovuto alle difficoltà economiche e alla volontà del popolo americano di salvaguardare in primis i propri interessi anziché spendere per la difesa europea. E da non sottovalutare è anche l’intento, da parte degli Stati Uniti, di non attuare altre risoluzioni drastiche, oltre alle sanzioni già in atto, nei confronti del terzo attore protagonista della crisi in Medio Oriente: l’Iran.
Fra le motivazioni spuntano nuovamente le ragioni economiche: se la Cina, infatti, non si potesse rifornire più dai pozzi iraniani diventati indirettamente bersagli privilegiati degli States, si assisterebbe ad un rialzo incontrollabile del prezzo del petrolio su tutto il mercato mondiale con conseguenze boomerang per gli occidentali. In questo apparente stallo della diplomazia, comunque, qualcosa si muove sullo scenario internazionale e un’aria nuova soffia dal Giappone. Il nuovo leader giapponese ha proposto la formazione, udite udite, di una Nato asiatica in cui coinvolgere la Nuova Zelanda, le Filippine e l’Australia. Il Giappone, che attualmente paga il 75% delle spese per il funzionamento sul suo territorio delle basi militari Usa senza, però, essere obbligato a intervenire in soccorso degli Stati Uniti, sarebbe disposto a continuare a sobbarcarsi le spese e a fornire aiuto all’alleato chiedendo, manco a dirlo, un ruolo di protagonista all’interno di questa nuova ipotetica alleanza. Potrebbe essere questa la tanto attesa svolta in grado di stravolgere l’assetto che attualmente si viene creando? Magari non quella che tutti noi vorremmo nell’immediato, ma forse una in grado di far pendere la bilancia, di nuovo, in favore delle democrazie. Non dimentichiamoci dell’utopico sogno di Spinelli e dei ragazzi di Ventotene che immaginarono una gigantesca democrazia estesa quanto tutta l’Europa con un proprio esercito comune, una politica estera condivisa e soprattutto con un’unica voce che oggi, se si facesse sentire, potrebbe spingere i belligeranti ad avvicinarsi al tavolo delle trattative, perché non è mai vero il detto “si vis pacem, para bellum”.