di Patrizia Massara Di Nallo (foto fonte web)
Nel 1360 Leonzio Pilato, monaco umanista di origine geografica incerta (greca o calabrese), primo traduttore in prosa latina dei poemi omerici. fu chiamato dal Boccaccio allo studio fiorentino. Di lui l’autore del Decamerone notò quell’inquietudine e labilità caratteriali spiegata come conseguenza della mancanza di vera identità spirituale da parte dei Calabresi. Nel “De genealogis deorum gentilium” il Boccaccio, infatti, afferma che la propria conoscenza della lingua e della cultura greca avrebbe potuto essere più approfondita “qualora quell’uomo instabile fosse rimasto più a lungo presso di noi”.
Più tardi, intorno al 1400, il nobile Jacopo Antonio della Marra definì Bernardino Telesio “un tal bruzio” considerando così sbrigativamente uno dei massimi filosofi del Rinascimento. Oltre alle negative e soggettive valutazioni personali che, nel corso dei secoli, non sono mai mancate scambievolmente fra gli scrittori raggiungendo, talvolta, l’apice di vere e proprie ingiurie, tuttavia, ambedue gli episodi sopracitati possono essere ascritti alla mancata conoscenza del nostro retaggio culturale.
Ritratto di Tommaso Campanella eseguito da Francesco Cozza.
Tommaso Campanella (Stilo 1568-Parigi1639), portando avanti la polemica, formulò un’ipotesi che verrà portata avanti da Giambattista Vico sulla civiltà italica nel “De antiquissima Italorum sapientia”(1710) e successivamente da Vincenzo Cuoco nel “Platone in Italia” (1806). Campanella nella sua “Philosophia sensibus demonstrata” (1591) dice: “ poiché questo saccente (Marra) chiama con disprezzo Telesio ora Bruzio e ora Calabrese, sappia che la Calabria è la migliore e la più antica di quasi tutte le regioni. Questa regione incominciò ad essere abitata dopo il diluvio per la fertilità del suolo da Aschenaz, nipote di Noè, nei pressi di Reggio. Fu chiamata Ausonia per essere fertile di ogni bene, come ora è detta Calabria, il cui nome significa quasi “regione abbondante”(….) Presso i Calabresi vigoreggiano anche tutte le discipline e l’intera scienza umana, e quella che ora si insegna nelle scuole trae origine dalla Calabria. Platone infatti e il suo discepolo Aristotele furono allievi di Calabresi. Platone infatti si portò da Atene in Calabria, e qui apprese tutto da Timeo, Euticrate ed Arione, tutti di Locri. La scuola di Pitagora fiorì presso Crotone e da tutto il mondo venivano a lui filosofi e re, come narrano svariati scrittori(….)dopo la sua morte la sua scuola fiorì a Locri e a Reggio sotto diversi maestri; e a quel tempo in tutta la regione non si contavano i filosofi e le donne sapientissime che scrissero molte opere”.
Comunque la tradizione della grecità col suo gusto per la speculazione e le tendenze mistiche diffuse dal pitagorismo e consolidate dall’opera di monaci basiliani nel periodo della dominazione bizantina, tendenze che, oltretutto, trovarono massima espressione nel millenarismo di Gioacchino da Fiore, si fusero con la propensione alla filosofia e all’utopia politica col Campanella.
Il carattere problematico della calabresità e il suo confondersi con la grecità è dimostrata, inoltre, in maniera incontrovertibile, dal fatto che il più antico documento del volgare calabrese, “La Carta rossanese”, scritta peraltro in caratteri greci, risale soltanto alla fine del XV secolo.L’illuminista Domenico Grimaldi (1735-1805), di Seminara, nel“Saggio sull’economia campestre per la Calabria e ultrà” dice: ” il genio dei Calabresi è attivo e intraprendente quando viene animato, ma facile a cadere nell’ inerzia e nell’avvilimento, quando trova degli ostacoli forti. I Calabresi sono sensibili all’onore, e perciò facile alla vendetta; ma trattati dolcemente sono umani e riconoscenti. Sono prontissimi a durar ogni fatica, quando son ben diretti e hanno generalmente una complessione atta a resistervi; sono la maggior parte di ingegno elevato e di una fervida immaginazione: non mancano di coraggio, nè trovasi un calabrese che non meni da bravo le mani nell’ occasione. Sono altresì sensibilissimi all’emulazione, che degenera alle volte in invidia; ed io credo che facendosi l’analisi dell’indole dei calabresi di oggi, pressappoco si troverebbero gli stessi vizi che formavano il carattere di antichi greci, dei quali i Calabresi tirano le origini “.
Lenormant.
Nel 1879 François Lenormant ne “La grande Greéce” scrisse: “Dalle escursioni (in Calabria) i viaggiatori porteranno un’alta stima ed una profonda simpatia pel carattere dei calabresi. Malgrado la cattiva fama fattale dai briganti, la popolazione è buona e onesta. Ancora un po’ selvaggia, ha qualcosa di feroce e violento; i costumi vi sono rozzi,ma semplici e retti”. Lo scrittore non esclude che la terra avrebbe potuto dare in seguito altri briganti, ma, al contrario del napoletano, ”non vi s’incontrano né ruffiani,né scrocconi. I caratteri vi sono fieri e leali; nessuna bassezza negli atti; nel linguaggio un accento fermo e diritto, che accompagna talvolta uno sguardo tetro, ma senza nulla di losco né di dissimulato. Invece della loquacità clamorosa, dell’esuberanza dei gesti, delle dimostrazioni esagerate del napoletano, il calabrese è piuttosto taciturno, ed ha nei suoi modi una contenuta gravità ed una dignità di atti che ricorda gli orientali. Egli è un lavoratore indefesso ed energico, e, chiamato sotto le armi, è un eccellente soldato. Aggiungete a tanto, delle virtù di ospitalità degne delle età patriarcali.” Più avanti continua: ”Si può, in ogni circostanza,avere una fiducia piena nelle parola degli abitanti”. Il Lenormant arriva a sostenere, e non come paradosso, che il brigantaggio è quasi un risorgimento morale, un’aperta ribellione alla legge sociale che può fare distinguere tra i briganti e i bricconi. Concetto questo, naturalmente, estremo e opinabile ricordando che, purtroppo, ogni malefatta può avere la sua giustificazione sociale e spesso storica. Infatti anche nella letteratura prettamente calabrese, per esempio, come nell“Antonello capobrigante calabrese”(1850) di Vincenzo Padula (Acri-Cosenza 1819-93), o nel“Giosafatte Tallarico” di Nicola Misasi (Cosenza1850-Roma1923) i briganti sono visti come coloro che vendicano il popolo.
Riprendendo gli scritti di Lenormant: “Uno dei tratti caratteristici, e senza dubbio il più amabile, del popolo calabrese è il suo spirito di ospitalità” che supera ogni altra ospitalità, anche quella orientale. Il viaggiatore trova l’accoglienza più cortese e premurosa, ciascuno si affretta a rendergli ogni cosa più facile e la philoxenia (dovere di ospitalità), come dicevano i Greci, finisce addirittura per imbarazzare l’ospite. “La frase spagnola di cortesia, che consiste nel dirvi,se voi ammirate qualche oggetto – E’ vostro -,questa frase si traduce qui in atto, e bisogna pesare, prima di pronunziarla, ogni parola di ammirazione, perché vi si obbligherebbe ad ogni costo a ricevere in dono l’oggetto che avete ammirato, ferendosi, se voi lo rifiutaste,l’amor proprio di colui che ve lo offre e che voi privereste forse così di una cosa a cui tiene.”
Foto Gissing.
Fra gli scrittori che intrapresero il cosiddetto Gran Tour nell’Italia Meridionale ci fu anche l’inglese George Gissing (1857–1903) che, di vasta cultura umanistica, manifestò sempre un interesse letterario e umano per il mondo classico.
Nel 1901 pubblicò “Sulla riva dello Jonio” in cui narrò le impressioni del viaggio da lui compiuto nel 1897 sulle coste del mar Jonio. In quest’opera, durante il resoconto del suo viaggio nell’Italia meridionale (spesso periglioso perché prese anche la malaria ), Gissing mostra costantemente simpatia per le genti del Sud Italia, soprattutto per i più poveri dei Calabresi di cui descrive con ammirazione la dignità e la gentilezza.
Foto Norman Douglas di Carl Van Vechten 1935.
Norman Douglas nel suo libro “Vecchia Calabria (Old Calabria)” del 1915, frutto delle sue visite nella nostra regione effettuate tra il 1907 e il 1911 e considerato da molti il miglior libro scritto sulla nostra regione, si sofferma su una visita in farmacia: “dove un certo numero di cittadini, i più anziani e i più saggi, si riuniscono a conversare. Anche i caffè, i negozi di barbiere e le mescite di vino sono punti d’incontro maschili” e poi continua “si entra ,dunque, nel negozio e si compra un tubetto di vaselina. Con questo semplice gesto si accettano tutti i privilegi del club ed è il momento di prendere una sedia sorridendo cordialmente a tutta la compagnia, senza però pronunciare una sillaba. Se seguirete questo cerimoniale senza errori ed omissioni, dopo breve tempo vi si domanderà con garbo quali programmi avete, dove abitate, ecc; e ben presto la maggior parte dei presenti sarà lanciata in un’appassionata gara per procurarvi una stanza pulita e comoda, a metà del prezzo che paghereste in albergo (….) questi signori,il Cielo li benedica,hanno un concetto così generoso dell’ospitalità che il visitatore non ha, dalla mattina alla sera,un solo minuto per sé (…..) le mance distribuite con la speranza di uno speciale trattamento sono rifiutate con tranquilla dignità, e se anche accettate non gioveranno in alcun modo ai vostri interessi (…..) la loro onestà è nota (…..) da ospite diverrete amico, fratello (…) I buoni cittadini di Rossano (…) si definiscono calabresi: Noi siamo Calabresi! dichiarano con orgoglio, a significare che sono al di là di ogni sospetto di imbroglio o di scorrettezza (….) Il calabrese è stranamente sprezzante di agi e comodità; è un personaggio di poche ma acconce parole, leale, indifferente ai dolori e alle sofferenze (…) un senso di distacco dalle cose mondane (…) anche l’uso di cenare molto tardi è un segno del meridione”.
Più avanti Douglas integra “compiono spesso gesti di spontanea, grande generosità verso i familiari…ma fuori da quell’ambito, l’interesse (l’omerico proprio bene) è la molla delle loro azioni. Di qui gli inchini e le adulazioni per lo straniero…tanta malizia è tuttavia rispettabile perché è di una trasparenza ingenua, infantile (….) C’è un proverbio che dice sfoga o schiatta, liberati o scoppia; il nostro (cioè inglese) vantato ideale dell’autocontrollo, di dominare i riflessi,qui è giudicato non solo strambo, ma dannoso alla salute” (….) Il popolo calabrese, pur tra le gravi manchevolezze dovute al secolare malgoverno, ha saputo conservare le sue particolari, ammirabili virtù.”
Sempre Douglas: “Certe caratteristiche orientali del carattere sono rimaste nel popolino… la tolleranza del mendicante semita che accetta qualunque insulto ed epiteto piuttosto che rischiare la perdita di un soldino; il loro incessante discorrere di tesori nascosti, la loro segretezza e tanti piccoli orientalismi. Molti vocaboli saraceni, specie del commercio e della vita marinara, sono sopravvissuti al loro dominio( saraceno) sia nel linguaggio letterario come balio e dogana sia in quello dialettale. Da quei tempi difficili è nata l’abitudine di chiamare cristiani un nativo del paese, in quanto era l’ opposto dei nemici maomettani, mentre saraceno è ancora comunemente usato come ingiuria.”
Sulla Sila Douglas scrive: “la padrona, in uno sfarzoso costume, mi salutò con un sorriso e la cordialità immediata che scoprii da allora naturale a tutte queste donne (…..) qui, l’equivalente più prossimo è la famiglia (….) loro considerano la casa non come centro geografico, ma sociale, passibile di venir trasferito da un luogo all’altro; dovunque sono a casa purché il loro clan sia riunito intorno a loro (…..) A San Giovanni in Fiore l’ oggetto di maggior interesse è costituito dalle donne (….) i lineamenti sono regolari, gli occhi neri o blu genziana cupo, la carnagione pallida, il portamento aggraziato e improntato ad una rara distinzione (….) Fra i Bruzi della Sila (…) queste razze non elleniche sono dignitose, oneste e indifferenti; bigotte, per non dire fanatiche (…) caratteristiche che indicano influenze elleniche: mancanza di moralità commerciale, di sincerità, di serietà in materia religiosa; ostinata indiscrezione, briosa spensieratezza (…) Riscontriamo influenze greche o saracene in tutte le zone in cui le donne sono tenute in bassa considerazione (…)nell’Italia meridionale molte usanze e superstizioni proclamano chiaramente questa superiorità(degli uomini) (…) tuttavia, la nascita di una femmina non è una calamità cinese: anche le bambine sono cristiani e vengono accettate come tali (…) Con quella sarda, la razza calabra è fra le più robuste del mondo, e appunto questa robustezza fa che gli uomini optino per la faticosa ma lucrosa vita delle miniere nordamericane piuttosto che per il più comodo lavoro in Argentina, preferito dai napoletani.”
Corrado Alvaro.
Il retaggio della grecità, di cui sussistono ancora ad oggi focolai linguistici in particolare a Bova, Roghudi e Gallicianò, era ancora più vivo nei primi decenni del 900 quando, scriveva Corrado Alvaro, in “Calabria”del 1931, che nell’ indole del calabrese forte si notava la propensione ” verso le cose superiori”, la scienza era “considerata la cosa più nobile, più alta, più degna dell’uomo ” e “il piacere più raro quello di ascoltare i discorsi degli uomini colti “. Sempre “mancò l’orgoglio delle cose popolari e locali, e mancò quel soffio di città moderna di cui i comuni italiani furono i primi a dire gli accenti nel mondo. Popolo e borghesia non furono da noi come in Toscana due classi comunicanti”.
Il carattere si riflette in parte anche nella ricca cultura popolare dove Romanze (fiabe o leggende) fantastiche e ingenue, strine (canti propiziatori di strenne) disinvolte, ninne-nanne e serenate rozze e dolci e piene di passione rivelano la duplice anima del popolo, montanaro e marinaro. In queste manifestazioni artistiche emerge un ardore diffidente e chiuso che sembra restìo a rivestirsi di parole, talvolta persino cupo. L’umorismo, scarso ed esasperato, diventa per lo più espressione di spregio, sarcasmo ed invettiva e, solo talvolta, con la dolcezza dell’abbandono al sogno più lontano e la fresca gioia del meraviglioso.
Alcune tradizioni popolari calabresi, invece, hanno rivelato un carattere magico-religioso che risale all’antichità. Secondo usanze ora dismesse, per esempio, si diceva acceppata la fanciulla sulla cui soglia l’innamorato, per farsi intendere da lei, avesse posto un ceppo adorno di nastri; e scapellata quella a cui il pretendente avesse strappato in pubblico il copricapo per indurre i genitori riluttanti al consenso.
A S. Giovanni in Fiore (CS), alla vigilia della nozze, la sposa riceve il cistiellu (cesto) contenente gli abiti nuziali che lo sposo le manda con una bambola di caciocavallo, adorna degli ori per la cerimonia. La nascita di un bambino, se maschio, si annuncia con cinque colpi di fucile, se femmina, con quattro, ma, prima del Battesimo, la creatura è raganella e non dev’essere guardata o baciata.Nella notte di Natale, sul focolare arde il ceppo contornato di tanti altri piccoli ceppi quante sono le persone della famiglia e a Carnevale le strade e le piazze sono percorse dalle comitive dei zupini e dei farsanti, che mettono in parodia gli avvenimenti paesani. Fra le danze, tipica è sui monti la pecurara, il ballo dei pastori, ma è molto diffusa anche la tarantella che un tempo si eseguiva al suono della cornamusa e della lira.
Le considerazioni di Honorè de Balzac che sosteneva: “la critica è una spazzola che non si può usare sulle stoffe leggere, dove porterebbe via tutto” e del giurista Lord Brougham che disse: “la cultura rende un popolo facile da guidare, ma difficile da trascinare; facile da governare,ma impossibile a ridursi in schiavitù” possono sintetizzare la resilienza dei Calabresi alla critica e alle angherie sia nella propria terra che al di fuori e la capacità di adattarsi senza perdere la propria dignità e coscienza storica. Ricordando,inoltre, il proverbio inglese: La storia è utile non già perché vi si legge il passato, ma perché vi si legge l’avvenire confidiamo in una sempre maggiore presa di coscienza della nostra storia e della nostra formazione culturale messa in risalto, magari, a partire dalle prime classi scolastiche quando, fra le prime nozioni di storia, si apprende che fummo noi calabresi a dare il nome all’intera Penisola e in seguito ad integrare, per primi e meglio di altri popoli, le civiltà classiche: la greca e la latina. Possiamo, quindi, concludere che il carattere dei Calabresi o la Calabresità, pur difficile da decifrare, è da sempre stata una realtà su cui si è molto discusso come parte integrante di una cultura multiforme, misteriosa per alcuni versi e affascinante. E’ sopravvissuta indenne, quasi non scalfita, alla nostra martoriata storia e possiamo dire orgogliosamente che ad essa ,in tutte le sue sfaccettature, molti nei secoli hanno attinto. In questa stessa ottica lo scrittore e critico statunitense Henry James affermò che: “criticare è valutare, impadronirsi, prendere possesso intellettuale, insomma stabilire un rapporto con la cosa criticata e farla propria.” Non volendo addentrarci in una spiegazione antropologica o sociologica sugli elementi culturali connotanti il nostro carattere (intendendo le caratteristiche peculiari di un popolo in una determinata area geografica), riteniamo che esso, con il passare dei secoli, si sia evoluto riguardo a molti aspetti contraddittori che attualmente sembrano appartenerci solo in parte, ma che in passato ci hanno resi sempre guardinghi nei confronti degli altri e, al contempo, pronti a farci carico dello straniero. Questa apparente contraddizione diventa quindi spunto di conoscenza e di riflessione delle caratteristiche proprie della nostra indole, della diffidenza che si coniuga con la generosità, dell’amicizia talvolta centellinata in una apparente chiusura , della disponibilità fino ad estremi sacrifici, ma anche dell’incapacità di creare una società coesa eccetto che in casi sporadici. Durante il nostro viaggio immaginario attraverso vari excursus letterari, il degradare veloce del paesaggio verso il mare annulla i chilometri e le inflessioni dialettali ci circondano e ci abbracciano continuando sempre ad intersecarsi ora nella morbidezza ora nell’asprezza degli accenti e delle aspirate greche.
(fonte enciclopedia Treccani)