di Gianluca Albanese
SIDERNO – «Io la vita me la sto godendo adesso, perché quando ero più giovane ero sempre chiuso dentro a studiare». Siderno, anni ’90. Peppe Fragomeni era in sella alla sua moto, a dare una lezione di vita a un ragazzo dell’epoca poco più che ventenne. Cioè io. Già, perché quando si ricorda una persona cara che non c’è più saltano tutti gli schemi professionali e si può parlare, e scrivere, in prima persona. Peppe Fragomeni non c’è più. Portato via da un male incurabile che ha sempre tenuto riservato per pudore, per dignità. La Pasqua sidernese diventa ancora più triste, e non c’è alcuna voglia di fare pasquetta, anche se a lui sarebbe piaciuto tanto festeggiarla.
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Peppe Fragomeni amava la vita. In quegli anni Siderno era più viva e felice. In una nota e frequentatissima palestra di via Trento, una sera come tante, entrò un ragazzone corpulento e simpatico. Aveva più di trentacinque anni, e agli occhi di noi ventenni sembrava un adulto, uno di quelli a cui dare, comunque, del “lei”. Era anche un architetto, un professionista. Uno che aveva una posizione professionale, e sociale, diversa dalla nostra.
Ben presto imparammo che le distanze anagrafiche e sociali, davanti a quelli come lui, si annullavano.
Peppe amava la vita. Amava scherzare, la buona tavola e il buon vino. Ci insegnava che nella vita non esistono tappe obbligate, e che ognuno realizza il suo percorso, sia esso familiare o professionale, quando gli pare e piace, quando se ne presenta l’occasione e non quando lo dicono le convenzioni comuni.
Il suo studio di via Matteotti era una sorta di paese dei balocchi. C’erano, sì, il tecnigrafo e i computer (merce quasi rara all’epoca) ma c’erano anche centinaia di dischi, poster, modellini di auto e moto e tanta voglia di prolungare la gioventù il più possibile.
Peppe si confidava con me, con quell’amico più giovane di quasi quindici anni, senza far sentire il distacco dell’età più adulta. Parlava delle sue storie passate e delle “sbandate” in cui ogni tanto incorreva. Senza filtri e senza freni inibitori. Passioni e delusioni, serate conviviali e periodi di solitudine cercata e voluta.
Grandi mangiate e motoraduni su una due ruote che rombava a tutto gas verso la vita da godere ogni giorno.
Anche dopo il matrimonio con la dolce Rita e la gioia della paternità di quella bambina che col passare degli anni diventava alta come lui e con lo stesso amore per la buona tavola.
Gli anni del Politecnico a Torino e della militanza giovanile (e per tradizione familiare) nel Pci erano un lontano ricordo, fatto di aneddoti simpatici come quelli che raccontava. Anni in cui lo prendevano per uno studente mediorientale, per via dei lineamenti orientali e del colorito olivastro.
Poi, come accade spesso, le strade della vita ci fecero allontanare, ma capitava spesso di vederlo in giro con la moto o col vespone a dispensare una battuta delle sue, a bere un calice di buon vino rosso o a fumare un buon sigaro.
«Dobbiamo andare a Firenze – ci diceva – a mangiare una grossa bistecca e a bere una bella bottiglia di Chianti a testa».
Ora, il bravo ragazzo del ’56, coetaneo di quel Miguel Bosè orgoglioso della sua classe anagrafica, che sapeva e voleva prolungare la gioventù fin quando era possibile, anche fuori degli schemi convenzionali, non c’è più, e questo ci riempie di tristezza.
Che la terra ti sia lieve, architetto.
T’immagino sfrecciare a bordo di una moto di grossa cilindrata verso l’autostrada che porta al Paradiso dei buoni, laddove qualcuno, nel frattempo, ti avrà apparecchiato una tavola con una succosa “fiorentina” e una bottiglia di Chianti d’annata.
I funerali avranno luogo domani alle 16, partendo dalla sua abitazione di via Gramsci, mentre la funzione religiosa verrà celebrata alla chiesa di Santa Maria dell’Arco.
Il tuo ricordo, invece, rivivrà in ogni brindisi felice e in quella voglia di vivere che se ne fregava del tempo che passava e delle responsabilità che aumentavano, perché la gioventù è una bella cosa, e bisogna farla durare più tempo possibile.