di Gianluca Albanese
LOCRI – Una struttura basata su regole condivise, nella quale si avanzava di grado “per meriti” e osservando la condotta prescritta dai dettami dell’organizzazione. Questa era la ‘ndrangheta vissuta da Paolo Iannò, ex capo “locale” di Gallico e, dal 2000 in poi, dissociato dall’associazione a delinquere di stampo mafioso nella quale entrò appena diciassettenne, battezzato direttamente col grado di “camorrista”’in virtù dell’appartenenza dinastica a una famiglia in cui sia il nonno che lo zio erano già ‘ndranghetisti.
Iannò è uno dei due collaboratori di giustizia sentiti nel corso dell’udienza odierna del processo “Crimine”, a carico di 36 presunti capi e gregari delle principali cosche della provincia di Reggio Calabria. Ovviamente, la progressione verticale di Iannò nella ‘ndrangheta non si esaurì al grado iniziale, ma, durante un periodo di detenzione e alla presenza di boss del calibro di Pasquale Condello detto “Il Supremo” (col quale ha riferito di avere il “San Giovanni”, ovvero il rapporto di comparaggio) , l’attuale collaboratore di giustizia ricevette lo “Sgarro” vero e proprio “voucher” per farsi riconoscere anche all’interno del proprio “locale” di appartenenza. Quanto basta, dunque, per diventare “capo locale” della popolosa frazione di Gallico, grazie allo “sgarro”, in virtù del quale non si può più uscire dalla ‘ndrangheta se non con la morte. Lui, invece, ci è uscito dopo l’arresto, all’inizio del decennio precedente. Da collaboratore di giustizia. E ora racconta in videoconferenza da un “sito riservato” davanti al PM Musarò e al giudice Alfredo Sicuro (a latere Cosenza e Sergi) i ricordi del tempo che fu, gli anni della guerra per il controllo di Reggio Calabria e della pace siglata nelle montagne sopra Sinopoli, nel corso di una riunione con i principali capibastone dei tre mandamenti della provincia “Strutturati – ha detto Iannò in aula – secondo l’appartenenza ai prefissi telefonici”. E quindi, c’erano quelli del mandamento “0965”, ovvero Reggio centro; 0964 “Ionica”; 0966 “Tirrenica”. L’attuale collaboratore di giustizia, che è arrivato a rivestire fino al ruolo di “quartino” (qualifica abbastanza elitaria se si pensa al contesto in cui è maturata) parla di una società con delle regole non scritte, nella quale chi entra viene prima studiato, valutato, e poi viene a conoscenza gradualmente di tutto ciò che esiste sopra di lui, perché nessuno, se non la fiorente letteratura sul tema emersa negli ultimi anni, potrà mai spiegargli fin da subito tutti i gradi di ‘ndrangheta. Ai tempi di Iannò, infatti, i libri sulla ‘ndrangheta non spiegavano in dettaglio tutti i gradini della carriera, e si procedeva per “step”, e solo quando si veniva, per esperienza e per “merito” a conoscenza del livello superiore, si poteva fare richiesta di avanzamento, che ovviamente veniva valutata da chi rivestiva i ruoli superiori. Già, perché la ‘ndrangheta spiegata da Iannò sembra veramente una struttura fondata, oltre che sul senso di possesso del territorio e di radicamento, su una certa idea di “meritocrazia” e sul rispetto di principi gerarchici ferrei. Gli stessi principi in virtù dei quali se si voleva aprire un “locale” di ‘ndrangheta (struttura territoriale di base su un paese o frazione) si doveva inoltrare la richiesta a un locale provvisorio, una sorta di direttorio rappresentativo di tutti i mandamenti e i cui membri venivano nominati secondo un preciso criterio di “turn-over”, che aveva sede presso il santuario della Madonna della Montagna a Polsi e, se ne ravvisava le condizioni, autorizzava la creazione del nuovo locale. E chi non rispettava le regole? Iannò, pur essendo dissociato da più di una dozzina d’anni ha risposto senza alcun dubbio: “Veniva isolato e non poteva più contare sul supporto e sull’amicizia degli altri ‘ndranghetisti”. L’esame di Iannò è tuttora in corso. Seguirà quello dell’altro collaboratore di giustizia Consolato Villani.