di Maria Natalia Iiriti
BOVA MARINA – Non è facile parlare di un intellettuale come Pasquino Crupi a poche ore dalla sua scomparsa.
Se avessi potuto avrei detto di no. Ma nemmeno questo no mi sembra la soluzione migliore. Pasquino Crupi è stato un uomo accompagnato da un’intelligenza vivacissima, alimentata dalle sue battaglie politiche e culturali, l’intelligenza ingombrante di un figlio del popolo, posta al servizio del popolo. Tutto il popolo è stato accolto nello studio al secondo piano della sua casa, collocata in una posizione strategica, all’inizio del borgo di Bova Marina, la parte antica di un paese nuovo, la parte più popolare. Due scrivanie ingombre di libri, libri arrampicati sulle pareti, un computer, la nuvola del sigaro al cui aroma era impossibile non affezionarsi, una poltrona di vimini davanti al caminetto, spento o acceso a seconda della temperatura esterna. Pasquino Crupi dava il meglio di sé in quei momenti di pausa dal lavoro intellettuale. Sembrava quasi lieto di avere lo spunto per distrarsi dalla realtà, dalla politica, dalla vita che, da intellettuale disobbediente, sintetizzava ogni giorno, da vari anni, nella sua rubrica Luna rossa per un quotidiano locale. Una luna che illuminava la notte e rincorreva il sole. Più di tutto mi piaceva la vista che regala l’ampia vetrata, una vista sul mare, sull’orizzonte, dove immaginavo che il professore potesse riposare gli occhi stanchi per la lettura e la scrittura e riflettere sulla questione meridionale, sulla storia e la letteratura calabrese. Pasquino Crupi è stato acceso contestatore in difesa dei diritti dei più deboli, della giustizia e dell’uguaglianza, dell’unità reale fra il Nord ricco e distratto e il Sud povero e pazzo, alleanza fra lavoratori, operai e intellettuali, studenti e professori. Studioso della letteratura nazionale, e calabrese in particolare, ha amato la sua terra e l’ha dimostrato con le sue parole. Parole che incantano e incatenano, che evocano la forza atavica del destino e una fede incrollabile nel sole dell’avvenire, la severità del padre e l’indulgente tenerezza del nonno verso i suoi nipoti. Parole che riuscivano a raggiungere tutti, e a trasformare la massa indefinita chiamata popolo in una comunità di attenti ascoltatori. A lui il merito di aver portato nelle piazze i versi dei poeti dialettali, di aver valorizzato la poesia popolare. Per il professore la lingua dialettale, così come la conoscenza della letteratura calabrese, può portare ad una consapevolezza nuova del popolo calabrese. “Il dialetto è la lingua madre” diceva Pasquino Crupi. “Noi pensiamo,operiamo mentalmente nella lingua madre e poi traduciamo nella lingua altra. Se dovessimo perdere questa fonte, non solo risulterebbe tagliata la nostra lingua, ma avremmo tagliata la nostra mente. Vale a dire che la colonizzazione, cui è stato sottoposto il Mezzogiorno e, quindi, la Calabria diventerebbe totale”.
Pasquino Crupi è stato un leone. Un leone nato durante la guerra, cresciuto sotto il sole implacabile del sud, ristrettezze egualitarie, giochi inventati e fantasia della strada al potere. I suoi coetanei lo ricordano come un giovane affascinante che viaggiava in treno ed era già lui, Pasquino Crupi, solo con meno viaggi addosso che l’hanno portato a diventare professore, rettore, direttore di giornale. Un giovane molto amato dalle ragazze che, quando era arrivato il momento di scegliere, aveva scelto la ragazza più innamorata e silenziosa che veniva spesso a trovarci nello studio del marito e portava il suo sorriso, si informava della comunità, dei bisogni del suo compagno, ed era presenza silenziosa e insostituibile.
“Pasquino Crupi ha vissuto più vite, senza paure e senza conformismi. Ha vissuto fino in fondo” mi dice la mia amica Caterina. Lo ha fatto mettendo a disposizione le sue parole, i suoi scritti, i suoi comizi tonanti. Ha fatto molte cose, ha avuto molto. Tante storie nel suo pugno chiuso, trascritte con gli artigli di un leone ruggente.