di Domenica Bumbaca ed Emanuela Alvaro
LOCRI – Questa è l’ultima lettera che pubblicheremo. Nei giorni scorsi molti dei dipendenti coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo che ha investito il call center si sono raccontati.
Roberta fa un passo in più, spiega e si confronta con quanti vorranno leggere il suo scritto, ma soprattutto con quanti vorranno immedesimarsi in uno dei lavori più “maltrattati degli ultimi decenni”.
La Redazione di Lente locale ringrazia quanti hanno voluto mettersi in gioco. Da parte nostra non calerà l’attenzione sulla questione. Vicini a tutti voi, a tutti noi, al territorio!
di Roberta Cautela
Quando penso alla mia vita, la vedo frutto di una serie di ineluttabili coincidenze che mi hanno condotto sulle diverse strade che ho percorso fino ad oggi. La stessa cosa mi viene in mente se penso alla vita degli altri. In generale, per quanto mi riguarda, il nostro “libero arbitrio” vale solo per le cose più piccole o per quelle più grandi, come i nostri sogni.
Da quando godo di una certa coscienza, mai avrei creduto di trovarmi a lavorare in un call center. Un call center è un luogo di lavoro come qualunque altro, con la differenza che, nelle relazioni sociali ne subisci la diversità. Tralasciando i “luoghi comuni” e il patetico fondare il proprio giudizio sulle opinioni degli altri, l’operatore del call center si interfaccia con la società per cui lavora, con i soggetti che svolgono funzioni parallele a quelle della società, con i team leader che lo formano, con le procedure e gli aggiornamenti. Egli è un grande conoscitore dell’animo umano.
Interloquisce per ore con persone senza volto, di cui conosce i dati più personali, cogliendone immediatamente problemi familiari, caratteriali e, a volte, esistenziali.
Conoscendo le procedure, risolve alacremente gli svariati e molteplici problemi che gli si presentano ed erudisce gli interlocutori sulle possibilità di risparmio e sulla gestione ottimale delle forniture. L’operatore è il secchio in cui vomitare il personale senso della “giustezza” di tali uomini, subendo, però, l’ingiustizia degli insulti dei maleducati, ora perché rappresenta la Società per cui lavora, ora perché “non ha fatto niente nella vita e si ritrova a lavorare in un call center”.
La notizia dell’apertura della procedura 223 (licenziamento collettivo), ha sconvolto un po’ tutti e abbiamo vissuto giorni carichi di dubbi che, purtroppo, sono diventati certezze. Alla certezza segue la speranza di trovare una nuova Commessa che potrebbe consentire il proseguimento del rapporto di lavoro. Ognuno cerca di sentirsi sicuro tra i calcoli di anzianità di servizio, i titoli preferenziali previsti dalla legge e i carichi di famiglia, oltre alle valutazioni sulla qualità del rendimento.
Con profonda amarezza, vado a constatare, leggendo o ascoltando i dati relativi a tale situazione, che una società che si definisce moderna, ribadisce concetti e prospetta soluzioni che ricalcano ciò che ciascuno di noi può ritrovare nella propria memoria, nel rispetto di un copione dettato dallo scorrere del tempo, senza soluzione di continuità.
Mi amareggia il concetto di dignità legato al posto di lavoro, sia di quello perduto, sia, nello specifico, di quello legato a una figura di “bassa manovalanza”. La dignità riguarda la morale, è personale, la si acquisisce e la si perde in piena coscienza e non può costituire il riflesso, DISCRIMINANTE, di un pensiero collettivo. Ancora, mi delude il nesso causale tra la perdita del lavoro e il delinquere, quando abbiamo esempi continui di delinquenza dal Nord al Sud in tutti i contesti lavorativi e a qualunque livello, ora dettati dal bisogno, ora dettati dall’ingordigia.
Personalmente, chiedo sia fatta chiarezza sui punti salienti di questo licenziamento, in particolar modo su ciò che i Sindacati devono fare per la tutela dei lavoratori, al di là di quanto studiato sui libri, e i tempi tecnici certi in cui ciascuno di noi cesserà di avere uno stipendio.
Un’ultima riflessione volta ai vertici politici Nazionali e Regionali che hanno acquisito poteri decisionali in seguito ai voti dei Calabresi: in tempi di elezioni vengono portati avanti i principi generali della Costituzione Italiana e prospettate le soluzioni ai problemi di un dato territorio, nel nostro caso ‘ndrangheta e disoccupazione. Viene paventata l’acquisizione di finanziamenti dedicati all’assunzione di giovani disoccupati da parte delle Aziende Private, che consentirebbe la risoluzione di buona parte di tali problemi, salvo poi il dileguamento delle stesse al sorgere delle prime difficoltà.
Qui a Locri, culla della Magna Graecia, grazie all’impegno di una manciata di giovani imprenditori, è nata e ha prosperato fino ad oggi questa Azienda, la Call&Call LOKROI, che ha dato lavoro a svariate centinaia di persone. Opportunismi imprenditoriali, definiti nella fattispecie come “ragioni logistiche”, che tanto somigliano ai meccanismi utilitaristici legati alle premialità per le nuove assunzioni, pongono fine ad una realtà economica oramai consolidata del territorio della Locride.
Di più, disperdono le conoscenze e le competenze acquisite in tanti anni di lavoro, costringendo all’esodo di massa, all’emigrazione dalla propria terra e all’abbandono di un territorio volto solo allo sviluppo economico, sociale e culturale.