E’ il libro che nessun editore ha voluto pubblicare, tanto che il suo autore Vittorio Pezzuto, giornalista 51enne con alle spalle incarichi istituzionali e politici col Partito Radicale, l’ha potuto stampare e diffondere solo grazie alla piattaforma di Amazon. Eppure, a nostro modo di vedere, “Marta Russo. Di sicuro c’è solo che è morta” è il volume che ogni libreria dovrebbe esporre in vetrina.
Un saggio di oltre 660 pagine, scritte vent’anni dopo il terribile omicidio di una giovane studentessa che passava per caso in un vialetto dell’Università “La Sapienza di Roma” e che ricostruisce la vicenda con una dovizia di particolari mai vista, attingendo prevalentemente dagli atti processuali, ma anche dagli articoli di stampa e dalle testimonianze raccolte in questi quattro lustri iniziati quella tarda mattinata del 9 maggio 1997.
Per la giustizia italiana, a sparare e uccidere in maniera colposa fu un giovane assistente universitario, Giovanni Scattone, aiutato da un collega originario di Siderno, Salvatore Ferraro.
Ma al di là delle personali convinzioni di ognuno di noi, sullo svolgimento e l’esito di un processo che inaugurò la stagione dei “tribunali televisivi” (precedendo l’esibizione del plastico della villetta di Cogne e così via), la lettura delle pagine dell’inchiesta di Pezzuto lascia un retrogusto amaro, di una giustizia dalla valenza solo formale e di una vicenda piena di contraddizioni e forzature.
Ogni capitolo è preceduto da un virgolettato dei protagonisti della vicenda, immediatamente seguito da una citazione di Leo Longanesi, che mette in evidenza le tante ipocrisie di un’inchiesta condotta dalla Procura di Roma che non poteva, all’epoca, permettersi un altro omicidio impunito, e le forzature che culmineranno con l’interrogatorio della teste-chiave Gabriella Alletto, che precedentemente giura sulla testa dei suoi figli di non essere mai stata nella famigerata aula 6 dell’istituto di Filosofia del Diritto, da dove, secondo la tesi dell’accusa, parzialmente accolta dai collegi giudicanti, partì il colpo di pistola che ferì mortalmente Marta Russo.
Pezzuto mette ordine nei ricordi di chi ha vissuto questi vent’anni da adulto, si è fatto una sua idea ma trova nella ricostruzione compiuta nella sua inchiesta una guida completa in cui, seppur con un taglio evidentemente innocentista, nulla viene taciuto o omesso e, anzi, si accenna a possibili piste alternative per la verità mai prese sul serio dai PM Ormanni e Lasperanza.
Un libro che non fa sconti, e che regala un campionario di curiosità che va dalla presenza del collegio giudicante nel processo di primo grado del magistrato e giallista Giancarlo De Cataldo (l’autore di “Romanzo criminale”) all’atteggiamento ondivago della stampa dell’epoca, prima decisamente colpevolista, poi innocentista quando emersero le prime crepe nella tesi dell’accusa e successivamente pronta a ospitare i due condannati ispirando, forse, quella bella canzone di Samuele Bersani intitolata “Cattiva” che parla proprio della spettacolarizzazione dei processi in Tv.
Non mancarono, naturalmente, i giudizi sommari dei criminologi e opinionisti di turno, e se è vero che il libro si apre con la copertina che ritrae la vittima nella foto che tutti abbiamo imparato a riconoscere (la stessa che era nei suoi documenti e che ora campeggia nel riquadro 85 del cimitero del Verano), sono poche le certezze che questa vicenda offre all’opinione pubblica: la morte di una povera ragazza che però aveva sposato con convinzione la cultura della donazione degli organi, l’atteggiamento composto e dignitoso dei suoi familiari, e le carriere spezzate dei due condannati, ora cinquantenni e lontani da quel mondo accademico che stava facendo emergere le loro indiscusse capacità.
E se Salvatore Ferraro è riuscito a cambiare attività e a dedicarsi a molte iniziative, quasi tutte a sostegno del miglioramento delle condizioni dei detenuti, su Giovanni Scattone si è abbattuta la fatwa di certa opinione pubblica e della stampa forcaiola, quando nonostante l’impegno profuso che gli valse il decimo posto nella graduatoria dei docenti della Regione Lazio, una volta destinato all’insegnamento e conquistata la stima di studenti, dirigenti scolastici e colleghi, fu praticamente costretto a lasciare l’insegnamento e a dedicarsi ad altre attività meno “esposte”.
In barba al diritto all’oblio, alla funzione rieducativa della pena e a tutti i trattati sulla necessità di reinserire socialmente gli ex detenuti, una volta pagato il debito con la giustizia.
Giustizia?
Il processo “Marta Russo” assume, dunque, le sembianze di un paradigma del processo penale all’Italiana. In uno stato in cui gli ex terroristi fanno affari d’oro intercettando soldi pubblici con cooperative create ad hoc o insegnano nelle università, a due ricercatori universitari, tirati dentro – non si sa perché ne come – il processo conseguenza di un orrendo delitto, viene tolta ogni possibilità di reinserimento e riscatto.
Entrambi, in questi vent’anni hanno ripetuto di non essere stati loro, anche quando avrebbero avuto la loro convenienza spicciola a farlo, e allora, se ci si sofferma a leggere il libro di Pezzuto i dubbi sul processo – ove possibile – aumentano, lasciando una sola certezza: il 9 maggio del 1997 è morta una studentessa innocente ed esemplare.
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