di Gianluca Albanese
«La casa sul confine della sera, oscura e silenziosa se ne sta. Respiri un’aria limpida e leggera e senti voci forse di altre età…». La celeberrima “Radici” di Francesco Guccini potrebbe essere l’ideale colonna sonora della lettura di “Prima di tutto un uomo” di Palma Comandè (2017, Luigi Pellegrini editore), un’opera che racconta le radici, appunto, e la storia della famiglia di origine di Saverio Strati, il grande scrittore originario di Sant’Agata del Bianco scomparso tre anni fa e vincitore, tra l’altro, del premio Campiello nel 1977 con “Il selvaggio di Santa Venere”.
E il libro di Palma Comandè, nipote di Saverio Strati, non è una mera biografia dell’illustre zio; semmai, ne narra, con impareggiabile chiarezza espositiva e dovizia di particolari, la storia dei parenti, le origini e quel rapporto così intimo con la casa e la terra che influenzerà le vicende di una famiglia come tante nella Calabria a cavallo tra il secolo XIX e XX. Una società rurale in cui la proprietà della terra e il suo sfruttamento danno la misura di ricchezza e benessere da un lato, di povertà e sfruttamento dall’altro. Struttura materiale che arriva a determinare perfino la sovrastruttura affettiva e sentimentale, condizionando pesantemente i rapporti tra consanguinei, come si scoprirà leggendo la trama narrata con la penna profonda dell’autrice.
Nessuna celebrazione acritica del Saverio Strati scrittore e all’apice del suo successo, nemmeno dello Strati “self made man” che da giovane muratore decide di tornare sui banchi di scuola e assecondare la sua vera vocazione, fino ad entrare tra i grandi della letteratura europea.
No, il libro non fa sconti, perché quello che vuole evidenziare è la storia della famiglia e di un Saverio Strati che è, come dice il titolo “Prima di tutto un uomo”, vittima anch’egli di quella “fragilità della condizione umana” che non risparmia nessuno, nemmeno i grandi scrittori. Tutto questo nonostante siano cristalline la stima e l’ammirazione dell’autrice nei confronti dello zio e dello scrittore di “Tibi e Tascia”, ma Saverio Strati nella storia narrata è solo un co-protagonista, con una vicenda umana che s’intreccia con quella dei propri parenti, che grazie alla penna di Palma Comandè diventano familiari al lettore: da quell’amore inizialmente contrastato tra i genitori dello scrittore, con la madre Agata figura di grande spessore e intelligenza che il fratello maggiore voleva dare in sposa a un altro pretendente, fino alla zia Teresa, il cui destino risente più che in ogni altro familiare l’esigenza di intrecciare le scelte – per la verità si fatica a definirle tali – sentimentali con la necessità di mantenere un benessere che in una società rurale e pre industriale come quella calabrese del ‘900 s’identificava con la proprietà terriera.
Non vogliamo svelare gli intrecci e la trama, molto avvincente, narrata. Semmai, dobbiamo confessare di avere percepito nitidamente, tra le sue pagine, gli odori della campagna, la consistenza friabile della terra appena lavorata, il profumo degli agrumi sui rami, la polvere che s’insinua nelle scarpe, la semioscurità delle abitazioni antiche, anche grazie al frequente ricorso dell’autrice a tipiche espressioni dialettali.
Chi fosse lo scrittore di successo Saverio Strati per i suoi parenti si evince dalla lettura del capitolo introduttivo, in cui una Palma Comandè adolescente accompagna la madre a piedi da Casignana fino a Sant’Agata per portare i doni preparati per l’illustre congiunto; un prologo tenero che lascia spazio a un simpatico aneddoto. Quindi, dopo il corpo centrale del libro, riguardante la narrazione delle vicende di tre generazioni di parenti, arriva la quarta e ultima parte, che coincide con la parabola discendente del Saverio Strati scrittore e il rapporto che si fa più intimo e schietto con quella nipote nelle cui vene scorre il sangue di nonna Agata, un esempio di emancipazione femminile e che riesce, con la massima genuinità, anche a permettersi di mettere sul piatto verità scomode, superando l’ostacolo della proverbiale ritrosia di Strati, alla quale fa da contraltare l’iniziale timidezza della Comandè superata solo grazie alla consapevolezza della necessità di dover esternare, esprimere i propri sentimenti. E l’autrice lo fa anche con le pagine finali, in cui si rivolge idealmente allo zio scomparso in una solitudine voluta e cercata nella lontana Toscana. Pagine che si concludono con la rivelazione di quei segni del destino che solo le anime più sensibili sono in grado di cogliere.
E allora, “Prima di tutto un uomo” di Palma Comandè assume una duplice valenza: da un lato, è il racconto di uno spaccato autentico di una “Calabria Ulteriore” dura a morire, attraverso la narrazione delle vicende della propria famiglia di origine; dall’altro è l’occasione per rileggere e comprendere da una prospettiva nuova le opere di Strati o, per i più giovani o distratti lettori, il motivo per scoprirle.
Avendo ben presente, però, che dietro uno scrittore di successo e di fama internazionale c’è sempre “Prima di tutto un uomo”.