di Simone Oggionni*
Concetto Marchesi, deputato della Costituente e grande latinista, era solito ricordare che la storia è fatta di una pasta diversa da quella del salame. La storia, diceva, non la puoi tagliare a fette per scegliere la fetta che ti piace di più. Devi prenderla – coglierla – tutta intera, nella sua complessità, nella sua concatenazione precisa di cause e conseguenze.
Mi torna in mente Marchesi approssimandoci, anche quest’anno, al “Giorno del ricordo”, istituito dal governo Berlusconi nel 2004 su proposta di Alleanza Nazionale.
Perché il “Giorno del ricordo” compie quest’errore, scegliendo di ricordare una porzione soltanto di storia, estrapolandola dal suo contesto, sconnettendola dai fatti e dalle vicende del ventennio precedente la Liberazione di Gorizia del 1° maggio 1945 e banalizzandola fino a renderla incomprensibile.
Intendiamoci: anche quella porzione di storia ha una sua autonoma dignità, è corretto definirla una tragedia, è necessario e doveroso ricordare, commemorare e rispettare la memoria di tutte le vittime.
Ma le esecuzioni da parte dei partigiani di Tito di alcune centinaia di persone in Istria dopo l’insurrezione dell’8 settembre e la successiva rioccupazione da parte dei nazisti e di alcune decine tra Trieste e Gorizia dopo il 1945 devono essere collocate nel contesto di quegli anni.
Tre flash. Il primo: il regime fascista dal suo insediamento perseguitò sul confine orientale, in nome del nazionalismo e del razzismo, oltre mezzo milione di sloveni e di croati che abitavano nei territori divenuti italiani dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Il divieto di parlare la propria lingua, la soppressione delle associazioni slovene e croate, la incarcerazione e la condanna a morte dei resistenti ebbe tra il 1941 e il 1945 come epilogo la guerra di aggressione nazifascista alla Jugoslavia e la deportazione nei campi di concentramento (Arbe/Rab, Gonars e molti altri) di migliaia di persone.
Il secondo: le foibe, il ricorso massiccio a esse come macabro e indegno luogo di sepoltura delle vittime, sono storicamente riconducibili alle persecuzioni e alle esecuzioni di antifascisti (soprattutto slavi ma anche italiani) messe in atto a partire dal 1942 dall’Ispettorato Speciale di Polizia per la Venezia Giulia istituito dal regime fascista.
Il terzo: quando nel 1943 anche i partigiani titini iniziarono a utilizzare le foibe, concentrarono la propria violenza nella grande maggioranza dei casi verso uomini compromessi con il fascismo (innanzitutto i collaborazionisti, come coloro che segnalavano gli ebrei da rastrellare al “Centro per lo studio del problema ebraico” inaugurato a Trieste nel giugno del 1942) quando non verso militari dell’esercito italiano prima e dell’esercito occupante tedesco poi.
Non ricordo questi fatti per giustificare, come qualcuno scriverà. Né per mancare di rispetto alla memoria delle vittime, di tutte le vittime, o per offendere il ricordo e l’affetto dei familiari, in primo luogo di coloro che furono uccisi – e ve ne furono – solo perché italiani. Sia chiaro: e mi scuserei con chiunque si sentisse offeso.
Lo faccio – fonti storiografiche alla mano, a disposizione di tutti – perché la storia deve essere studiata tutta e perché il 10 febbraio, se vuole avere un senso utile alla ricostruzione di una memoria storica rigorosa (e condivisa, a patto che la si riconosca tutta intera e nella sua verità complessiva), dovrebbe diventare questo: un’occasione straordinaria per fare i conti con le responsabilità atroci del regime fascista e con ciò che questo produsse sul confine orientale.
Invece la politica e l’accademia italiana, con poche e marginali eccezioni, fanno oggi quello che fino a due decenni faceva soltanto la destra missina, irredentista e neofascista: organizzano seminari, convegni, commemorazioni, non di rado manifestazioni di piazza e mobilitazioni vere e proprie, tagliando quel salame a fette e scegliendo l’ultima fetta. Quella più succulenta, da dare in pasto a un nazionalismo ignorante e becero che nel nostro paese ha sempre numerosi seguaci, come anche i fatti di cronaca di questi giorni ci dimostrano. Così facendo la storia non solo non la si capisce, ma la si mistifica, invertendo fatti e responsabilità, utilizzando eventi specifici e circostanziati, collocati all’interno dello scenario di guerra e di resistenza sopra descritto, come fossero scene di una fiction in tv. Una fiction in cui – come scriveva Angelo Del Boca – gli italiani sono sempre “brava gente” e gli altri, gli stranieri, gli slavi, i comunisti, sono un branco di assassini e di criminali.
Non è così. Bisognerebbe ricordarselo, anche il 10 febbraio.
*: fonte: www.huffingtonpost.it