di Francesco Tuccio
CAULONIA – Sta per compiere 69 anni e continua a far discutere la “Repubblica di Caulonia”. Ebbe grande risonanza nell’Italia non ancora liberata dal tallone nazi-fascista, se ne occupò Togliatti, e costituì elemento di analisi dei meridionalisti. Ora, una nuova pubblicazione ripercorre quegli eventi introducendo un altro punto di vista inaspettato che potrebbe mutare radicalmente gli scenari, le motivazioni e gli obiettivi.
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I fatti più salienti e già conosciuti non mutano se si esclude una sola novità rilevante. L’arresto di Ercole, figlio del sindaco Pasquale Cavallaro, fornisce la scintilla che fa scoppiare la rivolta. La notizia viene divulgata nella stessa notte per le frazioni di Caulonia e i paesi limitrofi e l’indomani, all’alba del 5 marzo, le strade che dalla montagna e dalla marina conducono al centro pullulano di uomini armati, risalgono la rupe e occupano l’abitato, mettono sentinelle alle quattro porte, costringono a rinchiudersi in caserma i carabinieri, prendono in ostaggio la famiglia del pretore e mandano lo stesso presso il Tribunale di Locri per ottenere la liberazione dell’arrestato. Intanto viene istituito il “tribunale del popolo” che si prodiga in tanti giudizi sommari, umiliazioni e punizioni corporali violenti. Nessuno degli agrari viene sottoposto a processo escluso uno soltanto.
Gli eventi precipitano con l’uccisione di don Gennaro Amato, parroco di una chiesa di campagna, avvenuta l’8 marzo. Del delitto si rendono responsabili due rivoltosi.
Ottenuta la liberazione del figlio, il sindaco Cavallaro è costretto alle dimissioni il 13 marzo. I ribelli devono consegnare le armi e in segno di pacificazione ottengono l’impegno che non saranno perseguiti.
Tutto pare rifluire nella normalità, ma l’11 di aprile avviene il colpo di scena. I carabinieri mettono in atto una vasta operazione per catturare i responsabili e i partecipanti alla rivolta. Vengono arrestate 365 persone, due moriranno in seguito alle percosse subite e una terza, innocente, viene uccisa da un milite in un vicolo del paese mentre in groppa al suo somarello sta per recarsi al lavoro in campagna.
Presso il Tribunale di Locri viene allestito il primo maxi processo che la storia giudiziaria italiana ricordi. Gli imputati ottengono l’amnistia perché viene riconosciuta la matrice sociale e politica dei fatti. Solo i due imputati dell’assassinio del parroco Amato e Pasquale Cavallaro, ritenuto il mandante, continuano da detenuti il percorso giudiziario.
Fu davvero “rossa” la ribellione, nel senso che ha avuto il carattere predominante della rivendicazione sociale e politica, l’obiettivo del ribaltamento dei rapporti di forza tra ceti dominanti e masse popolari, oppure fu una reazione violenta e criminale di una organizzazione armata e ampiamente ramificata oltre il territorio di Caulonia? E in entrambi i casi, che ruolo ebbe il partito comunista dell’epoca?
Questi interrogativi sono stati sempre il nocciolo duro della discussione e delle divisioni che ha attraversato i lunghi decenni che ci separano da quei fatti. Vincenzo Taranto, con il suo libro “Il Partito Comunista Italiano e la Repubblica di Caulonia del 1945”, Laruffa Editore 2013, si contrappone a tutta la pubblicistica finora maggiormente accreditata e consolidata, e, in particolare, si produce in una sistematica demolizione di ciò che afferma Alessandro Cavallaro ne “Operazione armi ai partigiani. I segreti del PCI e la Repubblica di Caulonia”, edito da Rubbettino 2010.
L’accusa di tradimento rivolta al PCI a Taranto, militante attivo per quasi 50 anni, dirigente, eletto, amministratore di quel partito, risulta intollerabile, una macchia necessaria per gettare su altri le responsabilità della rivolta e dei suoi esiti tragici, un modo per nascondere i fini personali di chi l’ha guidata. Il suo asse nella manica è una lettera che ha ricevuto nel 1973, in tempi non sospetti. L’autore della missiva è Vincenzo De Guisa, a quell’epoca segretario della Camera del Lavoro, uno dei quattro artigiani comunisti che tennero fede ai loro ideali durante il regime fascista e che all’avvenuta liberazione della Sicilia e della Calabria costituirono subito le sezioni del partito e del sindacato.
L’altro punto chiave e nuovo è la spiegazione del perché fu violato l’accordo della non punibilità dei rivoltosi e si diede corso alla loro cattura.
Un libro tutto da leggere, un racconto-smentita scorrevole, appassionato, chiaro e logico, un atto d’amore ammirevole verso una organizzazione politica che non c’è più e che continua a vivere nella mente e nel cuore dell’autore come parte incancellabile di sé stesso, un riconoscimento e un omaggio a quei quattro artigiani che resistettero e tennero aperta la prospettiva di progresso dei lavoratori e della sinistra a Caulonia.
Il limite di tutto ciò che si è scritto e detto su questo fatto storico è l’appartenenza politica o familiare degli autori che lasciano sempre un sospetto. Avremmo bisogno di una lettura più documentata e indipendente per porre fine, con una verità incontrovertibile, ad una vicenda drammatica che sembra voler durare all’infinito.