di Francesco Tuccio
CAULONIA – Parlo di loro due soltanto perché non conosco le altre, le tante altre storie uguali nell’esito contemporaneo, come fosse una tappa inesorabile della vita della gioventù ionica e calabrese. Sono storie divenute ordinarie, troppo insignificanti da non fare più notizia e che, nel contempo, costituiscono il dramma che non riusciamo o non vogliamo vedere.
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Michele amava giocare a calcio. Non sognava di diventare un campione, aveva la squadra del cuore e ne discuteva con accesa passione, ne imitava le imprese con la squadretta di un comune limitrofo. Sapeva bene che la sua vita fosse legata al lavoro. Lo cercò e lo trovò al Nord, precario e provvisorio nel tempo e nella paga, nei diversi datori di lavoro che fu costretto a cambiare, nei sacrifici a cui si sottopose. Poteva durare a lungo, forse per tutta la vita, finché non giunsero le spire della crisi per stritolarlo e ricacciarlo al paese, alla famiglia da cui si voleva affrancare. E qui ricominciò la ricerca del lavoro per un giorno ogni tanto, una settimana, neanche un mese.
Anche Luigi (nella foto) aveva il suo amore: la fotografia, attraverso cui esternava la sua sensibilità interiore. Ricercava i simboli sopravvissuti delle nostre radici e tradizioni, i grandi e piccoli scenari naturali, le immagini degli eventi, degli ultimi, delle sofferenze della gente. Nelle sue mani la macchina fotografica diventava una biro per scrivere poesie. Pensava che l’amore potesse coincidere con la vita, potesse dargli di che vivere e, invece, dopo tanta insistenza dovette arrendersi. In questo lembo di terra non è possibile!
Michele e Luigi si incontrarono per le vie del paese e si dissero che sarebbero partiti. Dove? A Melbourne in Australia. Stessa destinazione. E Michele spostò al 29 gennaio la sua partenza per farla coincidere con quella di Luigi. Avevano bisogno di rincuorarsi, di incrociare i loro destini per farsi forza e affrontare un futuro ignoto e pesante.
Stamane all’alba sono partiti. Mentre scrivo sono in viaggio e non so dove stiano. Ci staranno pensando i familiari, i parenti, gli amici. Ma come?
Ricordo gli anni ’50 e ’60, anni di partenze oltre gli oceani di intere famiglie. In quelle case c’era un via vai di gente come se si tenesse il lutto. Le distanze erano così incolmabili da considerare come defunte le persone che partivano. E c’erano, soprattutto, la consapevolezza e il dolore per gli affetti che si spezzavano, per la comunità che si immiseriva dissanguandosi. Consapevolezza e dolore che si fecero per lunghi anni sdegno e protesta nelle vie e nelle piazze della Calabria.
Oggi rimane il dolore, e l’assuefazione ha preso il posto ad ogni altra reazione. Assuefazione di fronte alla perdita delle nostre energie migliori, alla ‘ndrangheta che ci opprime, allo Stato che ci condanna, alle amministrazioni che ci mal governano. L’assuefazione nelle piccole e grandi cose: è la via della nostra ineluttabile decadenza.