di Francesco Tuccio (foto di Gianpiero Taverniti)
MONASTERACE – Sul gracile terrazzo raggiunto dal mare si sono ristretti i millenni. I gonfiori rifrangenti dello scirocco lo scuotono e minacciano di inghiottirlo. La modernità ci passa sopra incessante e getta geli d’indifferenza, ma le pietre bianche e i mosaici, ivi posati, scalfiti e composti dall’estro della sapienza, raccontano inesausti le loro cronache antiche.
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Quel giorno, come da un tempo infinito, si compiva il rito della “passa” dei cefali, voluta dalle leggi di natura e da cui gli uomini traevano nutrimento e delizia. Le acque dolci e cristalline ribollivano alle foci delle fiumare, e i pesci erano lame d’argento guizzanti nell’aria come saette, baluginavano come specchi di luce fendente, attraevano il volo rotante dei gabbiani, trepidanti nella canicola del sole di luglio. Voraci, le spigole e i serra affluivano alle foci, stringevano in circolo i grandi banchi, li incuneavano e costringevano a risalire i corsi d’acqua verso le colline. Qui, meriggiavano le greggi, indifferenti e flemmatiche brucavano all’ombra del folto dei pioppi e le macchie degli oleandri, ai margini dei greti ciottolosi che, ricoperti da diamantine punteggiature nere, inviavano al cielo il riverbero serpeggiante dei raggi solari. Le anguille e i granchi atterriti si nascondevano precipitandosi nei buchi di fango, sollevavano bolle color ocra che nella crespa superficie affioravano in macchie circolari crescenti, e di là, nel fondo del mare, acquattate nelle tane, tra i tronchi alluvionali e le cigliate rocciose delle grandi fosse, le cernie bianche, striate dai raggi turchini, attendevano placide e deste, muovendo le branchie a mantice. Poi tutto, con i ciuffi delle alghe sospesi nella danza incessante delle correnti, sprofondava dalle pareti vorticose che conducevano all’aspro paesaggio lunare di speroni e di gole, dove non giungeva la luce e gli abissi frastagliati scacciavano gli afflati dell’anima.
Chi vegliava aveva colto il segnale: i predatori della terra e del mare stringevano alleanza per quell’istinto pulsante, primordiale e violento, che regolava l’equilibrio della vita. Nel regno riproduttivo dei cefali era giunto il momento della pesca copiosa, e i pastori dalle folte capigliature, vestiti di pelli, con gli occhi scuri come la notte e le barbe arruffate, intrise di salsedine, accorrevano dall’alto, in senso contrario alle spigole e ai serra, per stringere i cefali in un abbraccio mortale. Quegli uomini conoscevano il ferro, portavano con sé lance e frecce di legno appuntite con il duro metallo. Erano, forse, i discendenti del popolo misterioso dei megaliti, delle dimore e dei templi dai muri ciclopici di quarzo e granito, che sapienti guardavano alla volta celeste per navigare nelle costellazioni, oppure delle genti dei villaggi montani che estraevano e forgiavano il ferro, sotterravano i morti nelle loro necropoli. Allora, la civiltà scese dalla montagna ubertosa e si diffuse in tutte le valli, e come i torrenti e le fiumare raggiunse la grande riva imbiancata del ionico mare. Così fu possibile uscire dalle grotte e dagli anfratti per costruire le capanne degli uomini e gli stazzi degli animali, cagliare il latte nelle nere caldaie fumanti, intagliare il legno e modellare il grezzo vasellame d’argilla.
I pastori si muovevano lenti e decisi per non intorbidire le acque, rapidi infilavano i pesci e li gettavano nelle grandi sporte di canne portate sulla testa dalle donne che li seguivano. Nelle sporte i cefali frementi raccoglievano le ultime forze per compiere l’estremo, inutile, salto alla riconquista della vita, mentre gli uomini già sognavano i grandi falò e le danze notturne sull’ampia spiaggia per ingraziarsi la luna e i suoi benevoli influssi.
Kaulo, con le sue navi dai lunghi remi e dalle vele quadre gonfie d’euro, spinto dalle leggere brezze di levante, seguiva il lungo e confuso filare dei canneti che proteggevano la terra dalle folate d’aria salmastra. Le prue alte e ricurve e le polene auliche si specchiavano imponenti come draghi marini, spartivano l’azzurro quieto in cirri lievi, lasciavano scie sonore e spumose, si avvicinavano lente. E Kaulo, protetto da Eolo e Poseidone, degli déi del vento e del mare, giunse improvviso laddove l’Oracolo di Delfi gli aveva predetto: “Fonderai la tua città dove le acque ti saranno propizie”.
Lo straniero e l’ignoto offuscavano la mente, schiantavano il cuore, e il luccichio delle armi e delle armature su quei legni mostruosi, minacciosi e mai visti, sparse sbigottimento e terrore. I pastori abbandonarono frettolosi la pesca e sparirono con le loro donne, le greggi e le rudi masserizie. Fuggiva attonita la vita libera, errante ed essenziale, intrisa di terra e di cielo, ma non di mare; incarnata nell’imo delle pietre e nel mistero delle selve; appesa all’albero dolce dei declivi di collina; impressa nella fusione con gli animali; fluente nello scroscio delle acque di torrente e di fiumara. Portava con sé i riti alla natura e alle divinità che innalzavano nel firmamento, nutrivano il corpo e l’abbandonavano agli istinti aviti. Fuggiva all’arrivo di nuovi dei, superiori, più raffinati e sapienti che nutrivano la mente e con i loro miti ispiravano le gesta eroiche degli uomini prodi.
Kaulo toccò la battigia, dove le onde lambivano la spiaggia con labbra sottili di soffici spume, comprese la sacralità del rito a cui aveva assistito e rammentò l’oracolo. Quella era la terra fertile dalle acque copiose di frutti marini. Alla confluenza delle acque dolci e salate, vide i colli ergersi su strette piane palustri. Da quelle alture dominava il mare, i fianchi morbidi delle valli profonde, cosparsi dal giallo della ginestra, dall’agave carnosa e dalla pala coronata dei fichi d’India; sulle dorsali delle colline che risalivano da fondovalle salivano le creste rupestri come volessero offrire un rifugio alle genti fuggiasche; nelle velature azzurrine più lontane indovinava i boschi fluenti di eriche, ilici e querce, e gli speroni di roccia che, sbucando dall’intrico dei rami e del fulvo fogliame, tendevano al cielo imponenti. Là avrebbero pascolato le greggi e gli armenti. Là avrebbe seminato il grano, piantati gli olivi e i tralci di vite che portava con sé dalla patria lontana. Là avrebbe tratto le pietre, i metalli e il legname per le sue navi, i templi, gli edifici e le dimore. Un nuovo stame cominciò a tessere il telaio della storia e su quella terra si celebrarono altri riti per principiare il destino che proveniva dall’illuminato mare di levante.
Nasceva il nuovo mito degli uomini colti e guerrieri. Distrussero e furono distrutti. Ricostruirono. I loro déi ebbero nelle mani la potenza delle forze della natura, la generosità della terra, le vie del mare, il destino dei mortali. Furono eroi consapevoli del limite umano, del loro limite scritto a fuoco nelle leggi della natura che temettero, rispettarono, non sfidarono e ci tramandarono l’universo delle meraviglie e della conoscenza.
Oggi siamo il popolo della notte, dello struscio, dei lidi e delle discoteche che hanno richiesto la costruzione di lungomari e porti, la manomissione innaturale degli arenili. Alle barriere di cemento contro e sulle onde abbiamo affidato l’illusione della bellezza, l’orgoglio cittadino, il business dell’attrazione ludica e vacanziera, mentre non sappiamo raccogliere l’immondizia e dove portarla, avvelenandoci con le discariche abusive e facendoci avvelenare. Al primo muro è seguita una spirale di accelerazione dell’erosione indotta dalle colate di cemento, di crolli e ricostruzioni fino al collasso odierno. L’effetto delle miopie della tecnica e della politica umiliate dalla forza incontenibile del mare. E nel turbinio di questa sfida impossibile abbiamo dimenticato quel gracile terrazzo la cui sacralità avrebbe richiesto una difesa assoluta e prioritaria. Abbiamo voluto rimarcare la nostra fatua provvisorietà usando la cesoia con le nostre origini storiche e culturali millenarie.