di Gianluca Albanese
LOCRI – Quanti black-out nell’udienza di oggi del processo “Recupero” a carico di decine di presunti boss e gregari della ‘ndrangheta sidernese…Black-out in senso stretto, visto che l’interruzione del servizio di energia elettrica nella zona ha causato la sospensione dei lavori per due ore, poco dopo l’inizio; black-out in senso lato, intesi come vuoti di memoria e mancanza di precisione nell’esame (e soprattutto nel controesame) del collaboratore di giustizia Giuseppe Costa, teste dell’accusa ed ergastolano che il 28 agosto del 2012 decise di avviare un percorso di collaborazione “Dopo aver appreso – ha detto il boss della cosca di ‘ndrangheta contrapposta a quella dei Commisso – dalla lettura dei giornali che mio fratello Tommaso voleva smetterla con la malavita e che disse di non aver commesso alcun omicidio. L’ho fatto non tanto perché gli altri detenuti che erano in carcere con me iniziarono a emarginarmi e in alcuni casi togliermi il saluto; nemmeno per il serio pericolo che fossi ucciso in carcere, magari sotto la doccia, ma perché penso ai miei nipoti che hanno fatto una scelta di vita onesta e improntata al lavoro e che non meritano di provare tutti i dispiaceri che ho provato io, con quasi tutti i miei fratelli uccisi nel corso della faida”.
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Davanti al collegio presieduto dal giudice Alfredo Sicuro, Costa è collegato in videoconferenza da un sito riservato. Viene ripreso di spalle e dai monitor dell’aula del tribunale si vede solo la nuca. Viene escusso in quanto “imputato in un procedimento connesso” e il PM De Bernardo lo definisce “Ancora intraneo alla ‘ndrangheta e oggetto di un procedimento in fase d’indagine”.
Costa si esprime in un italiano incerto e infarcito dell’espressione “alla quale” che usa quasi sempre a sproposito. La prima fase del suo esame parte dai primi anni ’70 da quella “ndrangheta in bianco e nero” nella quale dice di essere entrato da ragazzo, quando faceva il tipografo e l’allora latitante gioiosano Nicola Scali gli chiese di falsificare un passaporto. Costa racconta che fu Cosimo Commisso classe ’50 a dare il placet per la sua affiliazione alla ‘ndrangheta, dando il “la” a un rapporto di amore-odio con l’allora pupillo del patriarca sidernese ‘Ntoni Macrì che durò anche ai tempi della sanguinosa faida a cavallo tra gli anni ’80 e ’90.
Il giovane Costa divenne subito operativo: nascose i latitanti e fu ambasciatore del boss Macrì presso l’altro patriarca reggino Mico Tripodo e nella prima parte dell’udienza di stamattina ha ricostruito l’organigramma della società di Siderno nei primi anni ’70 “C’era – ha detto – anche Cosimo Figliomeni, padre dell’ex sindaco che era molto influente sia come uomo che come politico, dato che era consigliere comunale” e ha ricostruito gradi e articolazione nel Nord Italia e all’estero “In Canada – ha detto Costa – ci sono stato da ragazzino e la’ si poteva trafficare bene in qualsiasi cosa”.
LA FAIDA COI COMMISSO
L’album di famiglia è desolante e pieno di morti ammazzati. Gli unici superstiti sono lui e il fratello Tommaso “E tutto ebbe inizio – ha detto Costa – il 21 gennaio dell’87 quando venne ucciso in contrada Lamia mio fratello Luciano per volere di Cosimo Commisso. Sono certo – ha ribadito – che fu lui, perché era l’unico ad avere il potere di farlo, anche se fino ad allora io e i miei familiari fummo affiliati alla cosca Commisso. Qualcuno – ha proseguito – voleva convincermi che il mandante fosse Vincenzo Figliomeni detto “Brigante” ma io non lo pensai mai perché non aveva alcun motivo per farlo. Piuttosto, Cosimo Commisso voleva avere il dominio totale di tutto, e mal digeriva il fatto che mio fratello Luciano fosse conosciuto e rispettato anche fuori da Siderno e i Commisso volevano fare piazza pulita di tutte le altre ‘ndrine. In precedenza, ci furono altri episodi scatenanti, come il furto di armi in casa dei Commisso e una rapina all’hotel “Stella dello Ionio””.
Fu l’inizio di una faida tra due schieramenti (e soprattutto gruppi di fuoco) molto diversi: quello locale e radicato nel territorio cittadino dei Commisso, e quello eterogeneo e cosmopolita dei Costa, che comprendeva anche l’ex carabiniere Giordano, un libanese e alcuni soveratesi. Come prima rappresaglia ci fu il tentato omicidio dei due big Cosimo e Antonio Commisso, fratelli al vertice della cosca, che non vennero uccisi l’estate successiva al delitto di Luciano Costa perché all’ora prestabilita per l’omicidio non erano seduti al “White Star”, il centralissimo bar del lungomare di Siderno gestito da un loro cugino. I germani Giuliano e Tommaso Costa, secondo il racconto del teste odierno, li appostarono fuori dal bar e, non vedendoli arrivare, li seguirono con la macchina fino a sparare nei pressi della ferrovia, mancando però la mira. Dopodiché scattò il “piano B” dei Costa che prevedeva l’omicidio di Vincenzo Figliomeni detto “Brigante” “voluto – ha riferito in aula il teste Costa – da mio fratello Tommaso” e di quello di tale “Baggetta del Mirto” “Ai quali – ha detto Giuseppe Costa – fui sempre contrario, anche perché furono determinanti nel far rimanere nella cosca Commisso la ‘ndrina dei Rumbo-Gattuso-Figliomeni Angelo (figlio del brigante) che altrimenti sarebbe passata con noi.
Quindi, l’ecatombe dei fratelli Costa e i morti dell’altra fazione, in un quotidiano fatto di appostamenti, omicidi premeditati ma anche di rapporti ambigui, come quello tra Giuseppe Costa e Cosimo Commisso che per diverso tempo, in pubblico, finsero di essere ancora amici. “Anche durante la guerra – ha riferito il teste – mi salutava sempre per strada e mi proponeva qualche affare, perfino nel traffico di droga che però rifiutai”. La guerra, secondo Costa “finì dopo che il boss rosarnese Umberto Bellocco la propiziò nel carcere di Palmi durante il processo “Siderno Group””.
In realtà fu una pace “sulla carta”, almeno stando a un episodio successivamente narrato da Costa e che riguarda gli anni dell’apertura del centro commerciale “La Gru”. “In base agli accordi post pace – ha spiegato Costa – noi e i Commisso avremmo dovuto dividerci gli affari mentre in quel caso, mio fratello Tommaso chiese due negozi al centro commerciale al suo proprietario Luciano Racco, ma questi, dopo l’intervento di Riccardo Rumbo, diede solo due posti di lavoro, per la moglie e il nipote di Tommaso. Evidentemente – ha sottolineato maliziosamente Costa – Luciano Racco, che era stato eletto sindaco negli anni precedenti, doveva pagare qualche debito elettorale coi Commisso, perché si sa che a Siderno se non sei appoggiato dalla ‘ndrangheta le elezioni non le vinci: era così anche ai tempi di Iannopollo sindaco”.
Dopodichè, Costa, rispondendo alle domande del PM, ha passato in rassegna molti degli imputati di questo processo, definendone l’affiliazione alla ‘ndrangheta. Ma non solo. A precisa domanda del PM, Costa ha riferito che “Volevamo uccidere Enzo e Francesco, figli di Commisso Antonio classe ’25, perché sapevamo che il primo aveva sparato al nostro amico Paolo Meleca, che aveva la macelleria vicino al suo negozio. Pianificammo il delitto per bene, a Soverato, predisponendo una Fiat Croma con due kalashnikov, ma tutto fallì perché fui arrestato e l’auto sequestrata con le armi”.
IL CONTROESAME
Qua sono cadute molte di quelle che, in fase di esame, apparivano come granitiche certezze. Già, perché nel momento in cui gli avvocati chiedevano al teste da chi avesse appreso dell’affiliazione o meno alla ‘ndrangheta dei propri assistiti e soprattutto quando glielo comunicarono, Costa non ha mai risposto in maniera precisa, tanto che a un certo punto ha candidamente ammesso che “Non andavo in giro con l’agenda ad annotare quello che mi riferivano, anche perché all’epoca dei fatti non mi passava neanche per l’anticamera del cervello di collaborare con la giustizia. Quello che sapevo – ha proseguito -derivava dalla mia appartenenza alla ‘ndrangheta, dalle confidenze del macellaio Domenico Commisso, che aveva parenti comuni tra me e i Commisso, e dai colloqui in carcere con mio nipote Domenico Nigro. Altre cose le ho dedotte”. E così, per esempio, Costa ha definito l’ex sindaco Sandro Figliomeni “un geometra – in realtà è ingegnere – che ha fatto il sindaco”, ammettendo di non aver mai conosciuto personalmente molti imputati dati per affiliati alla ‘ndrangheta, come Massimo Pellegrino, Michele Correale, Vincenzo Salerno, e Domenico Giorgini, tra gli altri.
Lunedì 10 marzo sarà il turno dell’altro collaboratore di giustizia, Cossidente.