di Gianluca Albanese
E’ passato “solo” un secolo da quegli eventi, ma sembra preistoria. Le rivolte contadine in Calabria dal 1906 al 1925 appaiono come episodi isolati e comunque non accomunati da una strategia comune, semmai presentano tratti distintivi ricorrenti: la ribellione a soprusi delle classi dominanti e a imposizioni fiscali insostenibili in tempo di fame nera, l’individuazione nelle istituzioni locali dei centri di aggregazione del potere al quale rispondono anche Carabinieri e magistrati; lo spontaneismo delle masse dal quale si tennero lontani alcuni esponenti del Partito Socialista dell’epoca, i radical-chic dell’epoca.
E sono storie, in larga parte, dimenticate. Al giornalista e sociologo Claudio Cavaliere il merito di averle riportate alle luce nel saggio “Tumulti. Stragi contadine in Calabria (1906-1925)” (2020, Rubbettino) scritto con il tratto di penna diretto, velato da un’amara ironia e intriso della passione civile dell’autore, che attraverso ricerche storiche, testimonianze e rassegne stampa dell’epoca ricostruisce storie che in alcuni casi sono state dimenticate anche dai pronipoti di quelli che furono i protagonisti dei tumulti, abitanti di paesi in cui manca perfino una lapide, una via, una pro loco o una semplice associazione che ricordi quei tempi.
Già, le rassegne stampa. Quasi sempre, i giornali dell’epoca si limitavano a riportare le veline dell’agenzia Stefani (l’odierna Ansa) e a difendere sempre e comunque l’ordine costituito, mostrando “L’ipocrisia di chi sta sempre, con la ragione e mai col torto”; idem la magistratura che assolveva sempre e comunque chi sedava le rivolte con colpi di arma da fuoco ben assestati, indipendentemente dalle singole responsabilità penali individuali, dalla ricostruzione dei fatti, e dalle ragioni che spinsero quei contadini a ribellarsi. Tacendo perfino quando a cadere sotto i colpi dello Stato furono donne e bambini.
Non mancano nemmeno i tumulti nei centri della Locride, da Benestare a Casignana e tante altre storie di una Calabria troppo spesso incapace di ricordare la sua storia e la sua natura.
A un secolo di distanza la classe dei contadini è minoritaria e chi si avvicina all’agricoltura per farne una professione sono giovani istruiti e con percorsi accademici ad hoc intrapresi nelle regioni più evolute. I calabresi sono cambiati e non sempre in meglio. Certo, non si soffre più quella fame nera e non si dorme nei putridi tuguri descritti da Umberto Zanotti Bianco, ma gli sfruttati, anche e soprattutto in agricoltura, ci sono sempre, a cominciare dagli immigrati del ghetto di San Ferdinando. E i calabresi “imborghesiti” non si ribellano più, preferendo il conformismo di chi cerca di agganciarsi al carro del notabile di turno, nuovo “signore” del XXI secolo. Al limite ci s’indigna nei social network, copiando e incollando post in maniera acritica. La lettura del libro di Claudio Cavaliere, invece, oltre a ricordare quella delicata fase storica, può servire a interpretare certi segnali comuni a due epoche così apparentemente diverse (scioglimenti di consigli comunali a ripetizione con conseguente limitazione della sovranità popolare, conformismo e sciatteria nel mondo dell’informazione, spirito gattopardesco delle classi dominanti) per evitare che la storia, quella peggiore, possa ripetersi.