di Francesco Tuccio (ph. Giuseppe Briglia)
CAULONIA – Non vi appaia ardita e stravagante la trilogia contenuta nel titolo di questo articolo. L’occasione per una riflessione, per una breve ricostruzione storica ci è data dalla De. Co., una sigla astrusa che sta per Denominazione Comunale d’origine da attribuire agli agrumi di Caulonia. Il Consiglio comunale del 7 aprile scorso ha approvato non senza polemiche e con voto unanime il disciplinare, ma l’iniziativa e la pervicacia sono da ascrivere al merito ed alla lungimiranza di un giovane professionista cauloniese, Ilario Lucano.
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La De. Co. è un marchio di eccellenza e tracciabilità che si attribuisce ad un prodotto che ha qualità, tradizione, storia, valore identitario di un territorio specifico, delimitato. Nel nostro caso dire arance di Caulonia significa rievocare un processo storico con effetti incisivi nel tessuto economico e sociale, collegarsi direttamente al microclima temperato della costa ionica, alla vocazione particolare dei terreni posti alle sponde dell’Amusa, dell’Allaro, del Precariti e della stretta piana di Aguglia che, unitamente, alle pratiche e alle sostanze immesse nella coltivazione danno un prodotto di pregio esclusivo, esteso su circa 1.800 ettari.
Siamo in un mercato dove dal lato della domanda si sono accresciute sensibilità ed attenzione di fronte alle più volte acclarate mistificazioni, alle fonti di inquinamento ed alle attività fraudolente lesive della salute del consumatore. In questo contesto l’attribuzione della De. Co. rappresenta una certificazione di genuinità, uno strumento di marketing, un valore aggiunto per chi consuma e per chi produce, una chance in più per il turismo, un possibile argine contro l’abbandono già evidente ed il ripetersi di un declino già avverato nella nostra storia millenaria e che ha un punto di svolta epocale nel Manganello.
Il Manganello è una zona a sud dell’abitato di Caulonia centro, un grumo di case appollaiato sulla cigliata della rupe. Il toponimo deriva direttamente da un regolamento emanato da Carlo Maria Carafa (feudatario di Castelvetere 1671-1695) per disporre “che tutti i mastri di seta si riducano in un sol luogo, accomodando i manganelli in modo che possano vedersi l’un l’altro, e che nessun maestro possa lavorare più di due tumola di funicello al dì. Sera per sera essi maestri portino la seta nella bilancia del Reggio Sostituto e poi in Castello, ad effetto che si possano soddisfare prima gli esattori.” (…) “Nessuno ardisca comprar seta senza le debite licenze degli arrendatori.” Gli arrendatori, ovvero gli appaltatori della riscossione dei dazi voluti dalla monarchia al posto dei feudatari, si inserivano in un regime fiscale già divenuto esoso e da sottoporre ad un controllo poliziesco e asfissiante. I produttori furono costretti a portare i bozzoli al Manganello, ed al Manganello i maestri di seta, chiudendo le loro botteghe, furono obbligati a portare le attrezzature necessarie alla trattura. Là, avveniva la rapina del frutto del lavoro dei contadini e delle maestranze da parte del regio fisco, si concludeva tragicamente il ciclo di una bella storia iniziata prima dell’anno 1000.
I bizantini (850) introdussero la sericoltura a Castelvetere e in Calabria. Gli ebrei, che nel nostro centro storico avevano un ghetto ed una sinagoga, ebbero in mano il commercio della seta ed idearono un sistema remunerativo soddisfacente e propulsivo alla diffusione dei gelseti bianchi e neri in ogni dove, alla coltivazione del baco nelle case e nei casolari ed all’estrazione dei filati. Catanzaro era il centro rinomato in tutta Europa per la produzione dei tessuti pregiati. L’avvento dei Carafa nel 1479 e la cacciata degli ebrei nel 1492 cambiarono radicalmente lo scenario.
Il nuovo feudatario, avendo voglia di arricchirsi in fretta, imponeva un regime ferreo e spietato. Solo dopo qualche anno, l’Università di Castelvetere, rivolgendosi alla maestà del Re, lamentava che essendo “pervenuta in mano de baroni so stati disfacti et reducti ad extrema povertà”, denunciava “crudelite grandissime, arrobamenti et sassinamenti facti per li dicti quondam Jacopo Carafa, suoi figlioli et madamma Joannella soa nora”.
In tutto il meridione la produzione più ricca e fiorente fu avvolta in una spirale di tassazione sempre più profonda fino alla perdita di competitività ed alla sottrazione dei capitali necessari per reggere l’innovazione tecnologica che avveniva al nord. Per prima decaddero le filande e poi la sericoltura.
Già nel 1700, i contadini di Castelvetere, ridotti in condizioni miserevoli, reagirono alla crisi imposta, avviarono faticosamente e gradualmente un processo di riconversione colturale, sradicarono i gelseti ed impiantarono i giardini di agrumi. Solo la natura gli venne incontro con il clima mite e il terreno particolarmente fertile per la varietà del “biondo”, unica allora conosciuta. Nel 1878 fu costruita la ferrovia e attraverso Metaponto la fascia Ionica fu collegata a Napoli, all’Italia e all’Europa. Nella nostra marina si diffusero diversi punti di lavorazione volti alla spedizione con i treni merci. Le nostre arance conquistarono i mercati nazionali ed europei, si imposero per qualità e gusto. Bastava solo dire arance di Caulonia per richiamare tutto il loro prestigio.
Oggi, il dottor Ilario Lucano, con avvedutezza, ha lanciato una sfida importante. Spetta alla politica locale dismettere il teatrino della contrapposizione endemica, permanente, inconcludente e dannosa. Al tafferuglio vanno privilegiati la lettura e lo studio per comprendere e rappresentare l’anima di questa comunità, risolvere seriamente i suoi problemi oltre la cortina di fumo della tarantella, lanciarla in un ambito di modernità più alta e ampia. Spetta ai coltivatori dimostrare rigore colturale, capacità imprenditoriali ed associative per cogliere pienamente le opportunità offerte dalla De. Co.. Spetta a noi tutti raccogliere lo spirito indomito dei nostri contadini del ‘700.