(ph. Alex Chiera)
di Francesco Tuccio
Passato è il tempo in cui il gallo cantava e ispirava le poesie di Franco Costabile:
“Al Muragliene
il gallo canta
e il bracciante
è già nella vigna
che si sputa le mani
e incomincia a zappare.”
Ma a Calatria quel tempo è sordo, duro a morire, alita ancora nei sussulti di vita in lunga, disperata agonia. I pendii impalati dei vigneti orlati da fichi, fichidindia e melograni, i brandelli dei terrapieni arginati dai muri a secco di pietra scalfita brulicano di sarmenti, pampini verdi e germogli teneri di primavera.
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Il primo sole che penetra la valle staglia le sagome ossute, i petti protesi, le schiene ricurve, l’incarnato scuro e rugoso degli uomini senza padrone, con la zappa sibilante nell’aria. All’ombra dell’albero le giacche appese muovono al vento con un leggero sussurro di foglie, e attendono cullate le salviette rigonfie, l’orcio dell’acqua e la bottiglia di vino. S’odono i fendenti sulla terra pietrosa, e il sudore stillare ad inseminare ogni zolla. Sono i proprietari delle piccole vigne che nell’ultima estrema difesa stringono alleanza e scambiano le giornate di lavoro. Calatria è, ormai, una manciata di uomini solidali meno d’una pigna serrata stretta. Resistono al tempo artigliati alla tradizione millenaria, ai fianchi sinuosi di collina e di montagna, alle viscere della terra, al manto rigoglioso della natura.
Sanno che la vite è una dea superba, lussuriosa e volubile, fragile e generosa, e la colmano d’ardori come una sposa fresca alla prima notte di nozze per essere corrisposti con i lunghi tralci e i grappoli fitti di acini giallo dorati e viola bluastri. Il sangue dell’ultima vita trasfigurato nel vino tempra le fatiche, asciuga il sudore e i crudi pensieri, rinnova le memorie perdute negli infiniti meandri crepuscolari e, intanto, rinverdisce l’ospitalità della cultura contadina che sa di antiche leggende.