di Patrizia Massara Di Nallo
Da sempre il genere umano ha sentito la necessità di dibattere sull’essenza dell’essere (ontologia), sulla conoscenza stessa (gnoseologia),sulla relazione con i propri simili (antropologia), ma nessuno avrebbe potuto immaginare che un giorno il dibattito sull’apparenza (in contrapposizione alla realtà oggettiva) avrebbe assunto dei contorni sempre più sfumati e labili, quasi un nonsenso dovuto alla velocità di trasformazione della società e ai nuovi parametri da essa assunti. Oggi la sociologia, studiando uno dei più diffusi e repentini mutamenti del comportamento umano, strettamente connesso all’imperante tecnologia digitale, ha etichettato la nostra società come la società dell’apparire, quale mondo quasi sfiancato dal timore dell’oblìo, nell’ancestrale dicotomia verità e finzione, verità e teatro in un pirandelliano mascheramento e svelamento che talvolta può estraniare anche a sé stessi.
Nell’equivalenza apparire uguale ad esistere il cammino non è più tracciato dalle parole evangeliche “Io sono via, verità e vita” quali coordinate esistenziali dell’umanità, ma da una prepotente autoreferenzialità asserente che si è soprattutto, e forse solamente, l’immagine che si vuole dare di sé. Naturalmente non c’è niente di più fuorviante che appaghi la sfera superficiale della vita rischiando di fare smarrire l’autenticità dell’essere propinando la falsità un’immagine riflessa nello specchio, quindi invertita. Il cartesiano “cogito, ergo sum”, cioè “penso, quindi esisto” si è trasformato in un appaio, quindi esisto. Mentre la televisione e i social ci bersagliano subdolamente con i più svariati messaggi e i telefonini monitorano costantemente le nostra attività o inattività, a prescindere da quello che pensiamo e da come ci comportiamo, si rafforza il dictat apparire, essere presenti in una qualsivoglia situazione della nostra vita e conseguenzialmente esistere in una sorta di chiaroscurale limbo razionale e relazionale che ti fa abbracciare virtualmente il mondo …. o almeno il tuo mondo.
L’Uomo, essere sociale per eccellenza, più o meno consciamente, ha da sempre ambito ad ottenere il plauso dei propri simili, ma oggi il comportamento di pochi, amplificato come quello dei più, tende a prorompere dalle finestre dei social per stupire e imporsi. Non molti anni fa si organizzavano gli incontri con i propri amici riuscendo a comprendere il ruolo imprescindibile dei rapporti e l’importanza di essi per la propria crescita umana, mentre ora le relazioni si sono ridotte, almeno in parte, al filmare anche gli avvenimenti più futili, al fotografare le cose più inutili e a postarli, possibilmente, in tempo reale. Il panta rei della rete, che fagocita tutto e tutti, ci spinge a fermare l’attimo carpe diem, forse con l’ancestrale illusione di eterizzarci, appunto, nella ripetitività del quotidiano. Oggi, in effetti, sono solo mutati i mezzi per realizzare illusoriamente quello che l’uomo da sempre ha sognato: il superamento del tempo e dello spazio, quasi un’ubiquità, per relazionarsi con tutti, conosciuti e sconosciuti.
E l’intenzione sarebbe lodevole se lo scopo fosse la generosità e la prossimità calate nella realtà quotidiana, ma non è nulla di tutto questo. Nel turbine della giostra digitale prevale l’esibizionismo e, ancor peggio, l’esibizionismo del consumismo, il rientrare in parametri veicolati dai mass-media per sentirsi parte di una massa informe che, in fondo, dà sicurezza e scaccia la solitudine in cui spesso si è relegati di fronte allo schermo di un computer. La grave conseguenza è la limitazione e la riduzione dell’esperienza diretta della vita, delle occasioni di conoscenza viva e immediata rinunciando così ad essere pienamente sé stessi, cioè ad usare appieno l’intelletto nel difendere la propria libertà di pensiero e quindi anche la propria indipendenza umana e civile.
La più eclatante e scontata conseguenza di ciò, in primis per alcuni adolescenti, è reputare indistintamente esempi positivi ed emulabili tutti coloro che si esibiscono, soprattutto sui social, mentre cantano o ballano (povere nobili arti di Erato e Tersicore!) non distinguendo i dilettanti dai veri artisti. Inoltre la violenza, intrufolatasi di soppiatto anche nelle classi scolastiche, viene perpetrata e filmata come una bravata, uno scherzo di cui andare fieri e, nelle strade, perfino l’intercettazione delle telecamere non esercita alcuna deterrenza sui malintenzionati. Infatti, ultimamente, l’essere protagonisti-attori di aberranti filmati di aggressioni o di comportamenti a rischio di incolumità per sé e per gli altri, viene esibito come trofeo di superiorità fisica o intellettiva nei confronti dei più deboli.
La delinquenza sembra, purtroppo, aver così trovato il suo terreno ideale e fertile per essere ostentata e accentrare l’attenzione, nel desiderio di essere emulata come in un gioco interattivo.
E’ da tempo che questa società dell’apparire, con le sue connaturate derive, spinge a rincorrere l’elisir di lunga vita, ad eliminare le rughe della pelle e a non curarsi di quelle dell’anima. Quindi una tendenza sociale consolidata e tacitamente accettata anche in nome di una trasformazione epocale, inarrestabile e irreversibile da cui l’Uomo, almeno per ora, si è lasciato dominare. In questa sbornia generale viene considerato quasi alieno chi non vuole apparire e si tiene a debita distanza dai social o ne fa un uso moderato. Possiamo quindi considerare la società dell’apparire come un diffuso e caotico malcostume di cui dobbiamo ancora valutare appieno gli effetti collaterali. Auspichiamo, al contempo, un cammino digitale foriero di importanti potenzialità e al servizio di un progresso non disgiunto dall’etica, in un mondo sempre più globalizzato ma ancora fondamentalmente umano. Il riprenderci il tempo delle relazioni autentiche, non cedere alla tentazione di qualche selfie di troppo, diminuirebbe l’ansia, per alcuni divenuta patologica, di mettersi in mostra a tutti i costi e, purtroppo spesso, dal profilo meno fotogenico dell’anima.