di Gianluca Albanese (ph. Enzo Lacopo)
LOCRI – Le sentenze non si commentano; si rispettano. Vero. Ma un minimo di analisi può anche essere fatta, a un paio d’ore dalla lettura di una sentenza come quella del processo “Crimine”, letta a metà pomeriggio dal giudice Aldredo Sicuro, presidente del collegio giudicante composto anche da Adriana Cosenza e Giovanna Sergi.
Una sentenza le cui motivazioni saranno depositate entro novanta giorni e nella quale, al di là delle assoluzioni che non sono mancate (di particolare rilievo quelle a Giuseppe Chiera, Giuseppe Siviglia, Carmelo Ferraro, Giuseppe Velonà e Francesco Marzano, per i quali l’accusa aveva chiesto rispettivamente 19, 16, 13, 12 e 12 anni) l’impressione è che gli affiliati alle cosche della Locride siano quelli che hanno pagato il prezzo più caro di questa storica decisione, che attesta l’esistenza di una struttura verticistica provinciale, sovraordinata rispetto alle ‘ndrine che insistono in ogni paese. Una sorta di “cupola”, insomma, per mutuare un’espressione tipica della mafia siciliana. Tralasciando le assoluzioni degli imputati per i quali erano state chieste condanne minori, non si può dire che il collegio giudicante non abbia usato la mano pesante per i soggetti ritenuti elementi di vertice della ‘ndrangheta della provincia reggina. E’ il caso di Domenico Gangemi, per il quale è stata inflitta la condanna più alta, a 19 anni e sei mesi. Proprio lui, il commerciante da decenni residente a Genova che durante l’udienza dello scorso 6 maggio rilasciò la seguente dichiarazione spontanea per spiegare i propri contatti con i calabresi nel capoluogo ligure. «Perché – disse Gangemi – vendevo prodotti tipici e avevo un sacco di clienti calabresi anche tra le forze dell’ordine. Altro che luogo in cui i nostri conterranei venivano a riferire di vicende della ‘ndrangheta! Anche sull’organizzazione di feste con un gruppo folk – continuò – io mi ero interessato solo per fare da tramite tra gli organizzatori dei party (in una occasione anche il cardinal Bagnasco che come tutti i preti genovesi mi conosceva perché regalavo la frutta alle mense dei poveri) in quanto parente dei musicisti, ma poi finiva lì». E poi «Mi accusano di avere avuto un ruolo alle elezioni, ma ditemi voi chi non riceve una richiesta di supporto durante una campagna elettorale?» per poi concludere con un duro sfogo: «Signor giudice – disse rivolgendosi al presidente Sicuro – contro di me c’è una assurda montatura e sono arrivato a pensare che l’accusa di ‘ndranghetista che grava su di me sia dovuta solo al mio essere calabrese perché salutare un conterraneo dicendo “Buongiorno compare” da alcuni è già sufficiente per essere considerato mafioso. Io ho sempre lavorato e non ho mai fatto uno sgarbo a nessuno e vorrei sapere per quale motivo sono recluso da tre anni, quando coi calabresi a Genova avevo solo normali rapporti di amicizia, tipici dei conterranei residenti fuori regione». Una sentenza che non ha risparmiato nemmeno gli imputati più anziani, come l’ottantottenne Antonio Commisso (15 anni di condanna per lui) e “don Ciccillo” Gattuso: una condanna a 16 anni per il patriarca di Valanidi «che dava pane e lavoro» e tra i testi a discarico ha avuto, tra gli altri, il maresciallo dei carabinieri Luigi Isgrò e il suo omologo Vincenzo Iervolino, ma soprattutto il parroco del paese don Antonino Vinci, che durante l’escussione pronunciò una frase che catturò grande attenzione mediatica: «Ha una ditta di catrame e ha dato sempre pane e lavoro agli immigrati, fino quasi a civilizzarli. Era sempre disponibile a fare dei lavoretti gratuiti anche per la parrocchia». Altra condanna di assoluto rilievo quella inflitta a Ernesto Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica: per lui il collegio giudicante ha confermato in toto la richiesta a 18 anni di reclusione formulata dall’accusa. Ora, non rimane che valutare quanto la sentenza odierna possa influire su quella dell’altro processo in dirittura d’arrivo, ovvero “Circolo Formato”, il cui verdetto dovrebbe arrivare la prossima settimana.