*di Mario Staglianò
C’è uno spettro che si aggira per il mondo intero insinuandosi nelle pieghe più intime delle nostre coscienze.
Si tratta di un processo capillare, potente, pervasivo ed in grado di plasmare in profondità le nostre vite: è l’arretramento del pensiero critico cioè l’erosione della nostra capacità di conoscere e interpretare il mondo oltre gli schemi mentali che sono, in qualche modo, inoculati in noi dalle grandi trasformazioni che coinvolgono la tecnologia , l’economia, la politica, la cultura ma, anche, i rapporti tra le persone.
Anche se la quantità di conoscenze e di dati a nostra disposizione cresce a dismisura assieme alle persone che vi hanno accesso sembra sempre più difficile leggere criticamente la realtà e scegliere in che direzione andare.
Sempre più difficile rilevare le contraddizioni insite nei processi sociali ed economici e che è il “mestiere” del critico.
Un mestiere non solo teorico ma politico che evidenzia le disuguaglianze sociali ed economiche prodotte da quelle contraddizioni.
Soprattutto è sempre più difficile connettere le informazioni che riceviamo o le opinioni che, via via, ci facciamo a quella che per i Greci era la forma più elevata del sapere cioè la conoscenza di se, quel sapere che pure è indefinibile, oscillante come un sogno, non riducibile a una dottrina e tuttavia necessario.
Eppure non dovremmo smettere di provarci a connettere le singole, particolari, conoscenze a questa forma di sapere più ampio.
Se c’è una lezione che dal passato arriva intatta fino a noi è infatti proprio questa: il senso di smarrimento che proviamo di fronte ad un mondo imprevedibile, le esitazioni che ci caricano di ansia o di incertezza quasi ad ogni bivio che la vita ci presenta derivano proprio dalla nostra indisponibilità a quella ricerca socratica del se che si sviluppa come un pensiero critico attraverso la confutazione dialettica delle credenze, degli stili di vita, delle opinioni che dominano nella società e che, spesso, non hanno alcun fondamento razionale.
Nel mondo globalizzato si va imponendo un paradigma dal tenore opposto e nulla ci induce alla confutazione e al pensiero critico.
Una difficoltà ulteriore nasce dal fatto che questo paradigma è multiforme, ha mille facce, e non è facile da identificare e, tanto meno, da arginare.
E’ sfuggente, si dice in molti modi perché si alimenta da numerose sorgenti manifestandosi attraverso processi diversi tra loro e, all’apparenza, scollegati.
Tenere insieme questi processi che oggi governano il mondo e ci allontanano da noi stessi e dalla capacità di vedere criticamente la realtà, abbracciarli, invece, con uno sguardo unitario cogliendo il filo rosso che li unisce è, forse, un compito ineludibile.
Il sonno della critica può finire solo se ci sforziamo di cogliere i nessi profondi tra diversi processi in corso.
Il primo è la digitalizzazione della nostra vita.
Web e intelligenza artificiale concentrati nelle mani di pochi giga-capitalisti il cui oligopolio minaccia il libero mercato e mette a profitto ogni nostro atto comunicativo (messaggi, commenti, immagini, amicizie) stanno gradualmente plasmando le identità, le conoscenze.
Insomma, il nostro sguardo sul mondo, il modo in cui noi costruiamo le nostre relazioni personali accelerando una vera e propria trasformazione delle nostre vite.
L’imporsi egemonico di un modello egoistico e molto competitivo dell’esistenza vista, quasi in ogni campo, come una gara.
Si compete ovunque, dalla scuola al lavoro, dallo status economico, all’aspetto fisico fino alla vita sentimentale e felice – o almeno così si crede – è chi la gara la vince.
Il disagio psicologico, diffuso soprattutto tra ragazzi e ragazze, causato da un senso di inadeguatezza di fronte a degli standard estetici ed economici che sono irraggiungibili ma non per questo meno efficaci nell’orientare le nostre scelte e condizionare sogni, ambizioni o progetti di vita.
La trasformazione del dibattito pubblico in un confronto sempre più polarizzato alimentato da una fame di certezze granitiche e, anche, di comode semplificazioni delle complessità e pervaso da tanta rabbia.
Un dibattito, spesso, sterile che si sviluppa spesso tra opinioni contrapposte maturate all’interno di vere e proprie bolle comunicative – le famose camere dell’eco – che riuniscono il simile con il simile.
La conseguente dialogofobia che rende difficile non solo il confronto tra chi ha opinioni diverse ma, perfino, con amici e familiari. Meglio interporre il filtro di una chat, di un messaggio di testo, di un vocale pensano in tanti perché il confronto in diretta, anche con una persona cara, genera sempre più ansia.
La solitudine di milioni di persone che non hanno, lo confermano molti sondaggi, amici veri con cui aprirsi e confidarsi.
Le metropoli, dove si svolgono le nostre vite, che pure spesso sono affollate di relazioni e di nuovi incontri consumati alla svelta sono lo scenario in cui pratichiamo una solitudine condivisa.
L’indebolimento della democrazia come forma politica e, anche, come stile di vita.
Minacciata non solo dalle potenze illiberali che l’assediano armi in pugno o dal successo crescente dei populismi nazionalisti ma, anche, dal progressivo sganciamento della libertà individuale dal senso di responsabilità, di cura, di vicinanza nei confronti degli altri.
Il principale rischio per la democrazia, insomma, non sembra venire tanto da Mosca, Teheran o Pechino ma sorge dentro ciascuno di noi.
La concezione della giustizia come giustizia dei tribunali cioè come un criterio esterno, avulso dalla nostra personalissima e privatissima ricerca della felicità.
Una giustizia superficiale basata sulla concordanza apparente tra le nostre azioni – o, meglio, da ciò che delle nostre azioni arriva allo sguardo degli altri – e il dettato delle leggi.
E se poi, non visti, possiamo comportarci ingiustamente magari evadendo le tasse o violando impunemente altre regole della convivenza civile tanto meglio.
Il rattrappirsi del desiderio nella volontà di possedere chi ci piace ottenendo una continua conferma della nostra capacità seduttiva rimuovendo, in questo modo, quell’elemento di privazione e di mancanza che per il desiderio è proprio strutturale; narra il mito che la madre di Eros è Penia, povertà.
L’ossessione per l’identità individuale che ci rende tutti discendenti di Narciso, sempre a specchiarci in quella lucida superficie touchscreen che, forse, è ancora più pericolosa dello stagno in cui Narciso, nel mito, finì per annegare.
Il successo crescente di una forte identità collettiva (etnica, religiosa, nazionale, politica) cioè di quel “noi”, aggressivo, protettivo, che rassicura i “nostri” contro le incertezze del mondo in subbuglio e fa crescere l’ostilità nei confronti dei diversi riportando in auge la contrapposizione amico-nemico come l’essenza ultima del politico.
Il degradare dell’amore, troppo spesso vissuto come l’unica possibilità di essere felici in una società arida, faticosa, da cui è meglio fuggire perché c’è molta frustrazione.
Un amore compensativo, insomma, che rischia spesso di concretizzarsi in un’ illusione ed in una relazione sentimentale vissuta come una fusione dei due in uno. Una fusione che cancella le differenze alzando il ponte levatoio tra la coppia e il resto del mondo; una fusione che porta con se, presto o tardi, la delusione generata dal riemergere delle differenze tra i due poli della coppia.
Questi sono solo alcuni dei volti del mondo nuovo in cui viviamo.
Sono processi molto diversi tra loro, all’apparenza imparagonabili: che c’entra il disagio giovanile con l’ascesa dei populismi o con la diffusione dell’intelligenza artificiale?
Niente per alcuni aspetti, molto se li guardiamo da un occhio critico.
Sono tutti fenomeni da analizzare, dapprima, singolarmente ma lo sforzo decisivo per comprenderli davvero è quello di collegarli cogliendo le tendenze sotterranee che li uniscono, che li imparentano.
Ebbene oggi la sfida che attende il pensiero critico è proprio quella di connettere, associare, confrontare, cogliere l’essenza comune e le contraddizioni di fondo di una fase storica che fa largo uso di una razionalità strumentale, iper sviluppata e parcellizzata e che rischia di non farci vedere la foresta per colpa degli alberi.