di P.M.D.N.
Periodi brevi e incisivi come colpi di cesello, lievi e precisi al contempo, formano questo potente affresco sulla condizione delle donne algerine per quasi un secolo, dalla fine dell’Ottocento fino alla metà del ventesimo secolo, dalla guerra del colonialismo francese in Algeria a quella per la liberazione da esso.
La narrazione, che si snoda attraverso quadri dai temi variegati e con varie protagoniste, apre squarci dolorosi su tutti gli stadi generazionali della vita delle Donne d’Algeri: dalle bambine, quasi non considerate per la preferenza accordata ai figli maschi e a cui veniva insegnato a rimanere in silenzio, fino alle ragazze, il cui consenso matrimoniale avveniva per interposta persona, e alle donne che, se picchiate in casa, non potevano ricorrere all’ospedale o al medico perché entrambi i presidi sanitari erano di nazionalità francese.
Le Donne d’Algeri nei loro appartamenti di Assia Djebar potevano solo svelare viso e mani al fratello e al figlio “A che servono gli specchi?” guardando furtive attraverso il velo (il loro svelamento significava girare nude) come fantasmi che spiavano l’universo maschile. Così l’A. amplifica la voce di quelle donne alle quali non veniva rivolta la parola, per anni rinchiuse in casa tranne che per recarsi al bagno turco o a fare le pulizie di prima mattina nelle altrui dimore“La voce dei sospiri, veri sentimenti, dei dolori di tutte coloro che sono state murate vive” mentre nell’ordito narrativo talvolta si intrecciano bisbigli, che non assurgendo a dialoghi neanche fra le stesse anime, danno spazio a comunicazioni non verbali, a lacrime o a silenzi.
A questi rapporti, che accomunati da una sorta di prigionia si interfacciano muti, si alternano lamentazioni e canti antichi. Negli spazi chiusi o semichiusi i rituali si confondono a recinti fisici e spirituali, a lacci invisibili ma efficaci , fra cui luci soffuse e ampi vestiti si alternano al buio e al celato di esistenze sacrificate.
Il libro, pregno di significati nostalgici e ribelli, di tradizioni e voglia di libertà, sembra sprigionarsi dalle atmosfere ovattate e tristi del dipinto Donne d’Algeri di Delacroix (su cui peraltro l’A. si sofferma a rivelarne la genesi) che ferma un istante rubato ad alcune donne in un harem figurandole quasi estranee sia allo sguardo inatteso del pittore sia al loro stesso essere. Il romanzo- saggio sembra così diventare la narrazione verbale anche del quadro Donne d’Algeri di Picasso del 1954.
Inoltre Assia Djebar ci offre senza alcun pietismo o sensazionalismo, in un’analisi lucida e circostanziata della realtà femminile e del suo cammino lento e forzoso, un mondo arabo che, sottendendo caratteristiche tipiche del mondo arabo durante l’esilio, ci interroga discretamente su particolari usanze perpetuate nella società algerina quale il rispetto per gli anziani e per le figure autorevoli di riferimento come il padre o gli antenati.
Suoni, canzoni, voci si levano sommessi nelle stanze delle Donne d’Algeri unendo reiteratamente il passato al presente con un unico filo conduttore: la rassegnazione del ruolo affidato alle donne come spettatrici della vita del mondo e spesso della loro stessa vita mentre sullo sfondo scorre il tempo reale con una lentezza esasperante che, avvalendosi soprattutto delle delicate e coinvolgenti descrizioni della natura del paesaggio algerino,diventa poetica in quello narrativo.
Le Donne d’Algeri si affrancheranno solo quando verranno considerate eroine (portatrici di bombe) durante la rivoluzione algerina e quando le lamentazioni sulla guerra e sui morti per l’indipendenza faranno da contraltare alle loro urla di ribellione. Lo straziante epilogo intreccia vicessitudini di donne drogate e di stupri dapprima esecrati e poi messi a tacere “ Urlavo in silenzio e le altre non notavano che il silenzio”.
Lo stile, connotato da una vibrante aggettivazione, sostiene flashes di emozionanti immagini e si inserisce a pieno titolo nella tradizione dell’antica letteratura orientale rivelandosi a tratti fiabesco per i contorni sfumati di alcune figure e foriero di volute fantasiose e orpelli immaginifici sia nelle descrizioni più tumultuose di perpetuati riti che in quelle più pacate e solo accennate delle traversie interiori, sempre fra le quinte di dilaganti ed espressive musiche che pervadono l’atmosfera in primo piano.