R. & P.
Lunedì 18 novembre, presso il “Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane” di Reggio Calabria, si è tenuto un arricchente dibattito promosso dal Movimento universitario “Contaminiamo i Saperi” e patrocinato dall’Ordine degli psicologi della Calabria, dal titolo: “Il diritto alla speranza. L’ergastolo ostativo alla luce del ‘caso Viola’ e della sentenza della Corte costituzionale”.
Era fondamentale, in qualità di aspiranti operatori del diritto, organizzare un incontro di approfondimento e di analisi riguardante l’evoluzione giurisprudenziale in materia di ergastolo ostativo; ed è ancora più significativo che questa preziosa occasione si sia svolta all’interno dell’Università, luogo emblematico per la formazione dei protagonisti del futuro.
A dare il via ai lavori è stato il Dir. del DiGiES, Prof. Massimiliano Ferrara, che ha accolto favorevolmente non solo l’iniziativa in corso d’opera ma soprattutto lo spirito d’intraprendenza degli studenti e dei vari gruppi associativi che animano la nostra realtà universitaria. Con una incoraggiante esortazione a prestare completo affidamento nel sostegno del Dipartimento per qualsiasi progetto di crescita culturale e professionale, ha poi annunciato l’apertura di un corso di “diritto penitenziario” per il prossimo anno accademico, che valorizzerà sensibilmente il corso di studi in riva allo stretto.
Il Prof. Arturo Capone, associato di procedura penale presso l’Università Mediterranea, ha delineato il quadro giuridico e normativo in cui collocare l’argomento in questione, illustrando il tortuoso percorso dottrinale e giurisprudenziale che è culminato con la sentenza Viola della Corte EDU e con la sentenza della Corte costituzionale di alcune settimane fa. Le due Corti supreme hanno sostanzialmente sollecitato lo Stato italiano a prevedere che, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, il Tribunale di sorveglianza possa valutare la richiesta di accesso ai benefici penitenziari da parte dei condannati per i c.d. reati ostativi (tra cui l’associazione a delinquere di stampo mafioso), sempre alla luce dei percorsi trattamentali di rieducazione e di risocializzazione posti in essere dentro il carcere.
È stata poi colta la pregevole opportunità di conversare con la Dott.ssa Antonia Sergi, psicologa e psicoterapeuta presso gli Istituti penitenziari G. Panzera di Reggio Calabria, nonché esperta in criminologia e sistema penitenziario, che ha permesso di scoprire come opera in concreto un professionista negli ambienti carcerari. L’osservazione scientifica della personalità del reo, il concetto di “revisione critica”, le linee guida di valutazione in assenza di collaborazione del detenuto e poi l’approccio conoscitivo alla c.d. “psicologia mafiosa”, considerata anche la riproposizione in carcere delle condotte tipiche dei boss. Di particolare interesse la delucidazione relativa al trattamento degli affiliati alle organizzazioni criminali, anche perché – aspetto confermato dalla stessa dott.ssa Sergi – il mafioso è nella quasi totalità dei casi un “detenuto modello”, che si contraddistingue per il rispetto ossequioso del regolamento carcerario, perfettamente in sintonia con una forma di deontologia criminale.
Il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria, Avv. Agostino Siviglia, ha infine offerto degli efficaci spunti di riflessione critica, raccontando le numerose esperienze nelle carceri calabresi dove ha potuto, ad esempio, ammirare le opere di c.d. “ingegneria carceraria”, invenzioni e progettazioni di alcuni soggetti internati, utili e funzionali non solo per il trascorrere delle giornate in carcere ma soprattutto per conferire un barlume di umanità alla stessa detenzione. Dopo aver ripreso l’originale metafora proposta dal “Garante nazionale dei diritti dei detenuti” Mauro Palma, della “dea della giustizia non bendata” – appunto per soddisfare l’esigenza di guardare ogni singolo caso nella sua specificità, senza automatismi pregiudiziali -, ha citato l’esemplare gesto di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice palermitano, che ha chiesto di incontrare in carcere i fratelli Graviano (esecutori materiali dell’attentato di Via D’Amelio). Ha infine dichiarato che “deve essere lo Stato a nutrire il diritto alla speranza”.
E questa affascinante attività di studio e di ricerca, indispensabile per la realizzazione della nostra tavola rotonda, ha generato delle stimolanti considerazioni che vengono riportate in questo umile contributo.
Come spiegato in precedenza dal Prof. Pugiotto, Docente ordinario di diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, <<la Corte di Strasburgo non ha affatto bocciato la collaborazione come condizione per accedere ai benefici penitenziari, ma ha contestato l’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale del condannato, invitando il Legislatore italiano a prevedere anche per l’ergastolano non collaborante la necessità di accedere ai benefici penitenziari, se ha dato prova del suo ravvedimento. […] Ecco perché deve essere la magistratura di sorveglianza a valutare caso per caso, alla luce dell’intero percorso trattamentale del reo, se sia ancora socialmente pericoloso, indipendentemente dalla sua collaborazione con la giustizia>>. […] Caduto l’automatismo ostativo, si ritornerà alla regola della valutazione giurisdizionale individuale. Si chiama riserva di giurisdizione, ed è prevista dalla Costituzione a garanzia di tutti i cittadini, detenuti compresi>>. Si tratterebbe quindi dell’imprescindibile restituzione alla magistratura di un potere di valutazione e di verificabilità, come costituzionalmente previsto nel nostro ordinamento.
Sono state anche avanzate critiche legate a un’eventuale sovraesposizione dei giudici di sorveglianza alle ritorsioni del potere mafioso. Ma sorgono spontanei alcuni interrogativi: il pubblico ministero che chiede la condanna all’ergastolo ostativo, non è invece soggetto a questi rischi? E soprattutto, il giudice che emana la sentenza di condanna all’ergastolo ostativo, non rappresenta forse il grado decisionale più elevato in tal senso? Si tratta di un pericolo connaturato alla funzione stessa del magistrato, e risulterebbe pertanto inutile qualsiasi catastrofismo al riguardo. D’altronde, come spiegato da Fabio Gianfilippi – magistrato di sorveglianza di Spoleto e componente del Tribunale di sorveglianza di Perugia, che peraltro ha sollevato il caso di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano ostativo Pietro Pavone -, <oggiAggiungi un appuntamento per oggi valuta le loro richieste di differimento della pena per motivi di salute, le richieste di permesso per gravi motivi, oppure si occupa di valutare la concessione di benefici penitenziari nei confronti di quei detenuti per reati di mafia che non siano collaboratori, ma che abbiano avuto la valutazione di collaborazione impossibile con la giustizia>>.
Analizzando poi un punto di vista requirente, è interessante menzionare alcune osservazioni rilasciate da un altro operatore pratico del diritto, da anni impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, come il procuratore della DDA di Reggio Calabria Stefano Musolino. Afferma il p.m. reggino: <<Nonostante la scarsità di investimenti e di attenzioni, il sistema penitenziario e la magistratura di sorveglianza hanno già dimostrato un’efficace capacità di gestione di queste dinamiche. Gli allarmismi sul punto sono, perciò, del tutto infondati. Piuttosto, mi inquieta il tentativo di aggressione culturale alla capacità discrezionale del giudice. È come se si brandisse il manganello mediatico per indurre la magistratura a chiedere nuove e deresponsabilizzanti presunzioni normative. Ma noi siamo un potere dello Stato, non funzionari addetti allo smaltimento di pratiche burocratiche e ogni persona, ogni situazione sottoposta al nostro giudizio merita un’attenzione speciale che ci impone valutazioni verificabili e discrezionali, perché tarate sul caso specifico sottoposto alla nostra attenzione>>. Significativa poi l’affermazione del magistrato antimafia: <<direi che sia più accettabile (sul piano dei costi-benefici costituzionali) un errore, in buona fede, del giudice a favore di un detenuto immeritevole, anziché cento detenuti costretti a un generale regime deteriore che non tiene conto del loro percorso personale, per impedire che possa verificarsi il predetto errore>>.
Ma lo tsunami di polemiche sulla vicenda non si è per nulla limitato a valutazioni di natura tecnica, raggiungendo notevoli livelli di strumentalizzazione mediatica, attraverso ad esempio l’abuso del nome di Giovanni Falcone. Come spiegato dal Prof. Capone durante il nostro convegno, è vero che Giovanni Falcone – da Direttore generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia – aveva contribuito alla stesura del d.l. 152 del 1991, che introdusse per la prima volta l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario; la prima versione, tuttavia, condizionava l’accesso ai benefici penitenziari all’esclusione di rapporti attuali con la criminalità organizzata. Solo dopo la strage di Capaci, sull’onda emergenziale, fu invece emanato il secondo decreto legge che introdusse l’attuale art. 4bis o.p., con l’ostatività della mancata collaborazione.
La stessa Corte EDU ha rilevato, nella pronuncia sull’ergastolano taurianovese, <<che il sistema penitenziario italiano si fonda sul principio della progressione trattamentale, secondo il quale la partecipazione attiva al programma individuale di rieducazione e il passare del tempo possono produrre degli effetti positivi sul condannato e promuovere il suo pieno reinserimento nella società. Man mano che evolve la detenzione, ammesso che evolva, il detenuto si vede offrire dal sistema la possibilità di beneficiare di misure progressive (che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale), destinate ad accompagnarlo nel suo “cammino verso l’uscita”>>. E appare inoltre ancor più considerevole un dettaglio legato al procedimento dinnanzi alla Corte sovranazionale. L’art. 43 CEDU parla chiaro: “possono essere discusse alla Grande Camera soltanto le questioni che presentino seri dubbi interpretativi”. Sembrerebbe evidente, quindi, la netta presa di posizione di Strasburgo sulla controversia, manifestata appunto con il rigetto del ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza Viola, come a voler precisare che non esistesse alcun serio dubbio interpretativo tale da rimettere in discussione la pronuncia dello scorso giugno.
Grazie a una formidabile squadra di professionisti, il corpo studentesco dell’Università “Mediterranea” e la società civile reggina hanno potuto cogliere la rivoluzione copernicana avvenuta nel mondo del diritto penitenziario, abbattendo quel muro di paura, di incredulità e di indignazione costantemente fortificato dalla disinformazione dilagante. Risulta, quindi, inderogabile una esortazione nel pieno rispetto di qualsiasi opinione sulla tematica: corre l’obbligo (non solo il dovere) morale di riempire la parola “intelligenza” del suo significato etimologico, “intus”-“legere”, “leggere dentro”, non fermarsi all’apparenza, alla copertina di un libro, alla descrizione di un articolo di giornale. Al titolo di un post Facebook.
Giuseppe Abramo, laureando DiGiES