di Rosario Rocca*
Imparai Bella Ciao da bambino, alle elementari. A memoria, come le poesie di Pascoli e Carducci. Allora era così: in prossimità del 25 aprile, gli insegnanti ci esponevano riflessioni, certo semplificate nelle immagini e nelle parole, sulla Resistenza e sui valori che illuminarono i primi passi di ricostruzione e rinascita del Paese. Solo a distanza di molti anni, ho compreso quanto la mia maestra fosse stata brava a farmi amare quella pagina del sussidiario. E fu così brava che, di quella lezione di vita e memoria, ricordo anche i contorni più dolorosi. Erano le lettere dei condannati a morte. Salutavano i loro cari con parole di amore e patria. Nelle righe finali di ogni scritto, sembrava di percepire il battito del cuore addolorato di un figlio che salutava la madre, di un padre che affidava alla moglie l’estremo abbraccio al suo figlioletto. Le raccomandava di prendersene cura. Provai pena per quel bambino che la guerra privò del suo caro papà. E pensai che, se fosse capitato a me, sarebbe stato terribile. Cominciai così a maturare l’idea che la guerra non era poi come il gioco dei soldatini di plastica, che disponevo con cura sui due versanti opposti del caminetto. Quelli verdi da un lato, e quelli grigi dall’altro. A volte, per capriccio o fantasia, ne lasciavo precipitare qualcuno nel fuoco. Non potevo avere contezza che la guerra – quella vera – bruciasse veramente delle esistenze, dei sentimenti, la serenità di tanti bambini come me.
L’antifascismo è stato una costante della mia formazione politica e umana. Così come la memoria partigiana. Quando insegnavo in provincia di Torino, un giorno accompagnai i ragazzi in montagna. Andammo in una fattoria didattica nella Val Pellice. Rimasi affascinato da quelle alture silenziose in cui si distinguevano, sparse, delle lapidi dedicate a giovani partigiani. Le fotografie, che ritraevano ragazze e ragazzi sorridenti, sembrava volessero tracciarne i sentieri incantati di nebbia e pietraie alpine. Sentieri partigiani. Su quei monti taciturni, mi è parso di sentire le loro voci. I loro lamenti di dolore alle raffiche di mitra nemiche. Il loro grido di libertà. Guardavo quei volti e pensavo a come sarebbero state le loro vite se non fossero state sbranate dalla primavera. Allo stesso modo di altri ragazzi come loro, morti – cantava De Gregori – dalla parte sbagliata. Per la causa sbagliata. Ma pur sempre per un ideale in cui avevano creduto. Mi piace pensare che, un giorno, il 25 aprile sarà anche un’occasione di memoria e pietà per quei poveri vinti.
Il 25 aprile di Settantacinque anni addietro ci consegnò un Paese libero, antifascista, fondato sugli ideali di libertà, di uguaglianza fra gli uomini e di pace tra i popoli. Ogni italiano dovrebbe riconoscersi e identificarsi in quei valori e in quella lotta di Liberazione. Ogni maestra, come fece la mia, dovrebbe provare a spiegare ai suoi ragazzi che la libertà è il bene più prezioso e che non basterebbero tutti i tesori del mondo, e delle storie del mondo, per compensarne l’assenza.
Ma quel 25 aprile fu sporcato e offeso da un’altra data, da un luogo e da un’immagine macabra. Il 28 aprile successivo, a Piazzale Loreto, i corpi di Mussolini e della sua amante Claretta Petacci, insieme a quelli di altri gerarchi fascisti, furono brutalizzati ed esposti a testa in giù. Quelle sagome umane deformate vennero consegnate alla rabbia popolare. La pietà umana fu sospesa. Lui era il duce del fascismo. Un pazzo, criminale, con le mani e la coscienza sporche di tanto sangue innocente. Ma lei aveva la sola colpa di un sentimento folle e smisurato per quell’uomo. La storia racconta che rimasero a lungo penzolanti e colpiti con proiettili, ortaggi, pietre e quel che capitava per le mani della folla cieca di vendetta. Una pagina d’odio, la più brutale della parte giusta. La nostra parte. Sembra che un giovane Partigiano che, a distanza di oltre trent’anni, sarebbe poi divenuto il Presidente più amato dagli italiani, accorso tra la folla, rimase fortemente turbato e offeso da tanta barbarie.
Domani, ognuno di noi commemorerà la Resistenza e la Liberazione. Lo faremo dalle nostre case, magari lasciando volare dai balconi le note di quel canto partigiano che imparai da bambino. Forse con una consapevolezza più compiuta del valore della Libertà. Del valore storico e morale della nostra Liberazione, quella che abbiamo amato ed ereditato. E che dovremo continuare a trasmettere e proteggere da altri Piazzale Loreto, da altri 28 aprile. Prima di tutto, insegnando ai nostri figli che mai, per nessuna causa o ragione, la pietà umana può cessare. Perché in assenza di pietà umana non potremo dirci, mai, donne e uomini liberi. E nemmeno, semplicemente, donne e uomini.
*scrittore