di Rosario Rocca
Mi ha particolarmente turbato, qualche giorno addietro, l’intervento alla Camera dei Deputati di un parlamentare del bergamasco. Raccontava al Paese, in lacrime, uno degli aspetti più dolorosi del dramma che stanno attraversando le comunità più colpite: la morte della generazione dei nonni, della loro memoria storica, delle loro radici. Ho appreso che a quelle latitudini il suono delle sirene è ancora più straziante. Sembra voglia cadenzare il ritmo della mattanza. Ed è inquietante consultare il bollettino quotidiano che descrive la portata della tragedia in termini numerici. Dati. Freddi e cinici. Senza volti, senza storie da raccontare e piangere. La storia, quella ufficiale, la ricorderà ai posteri come la pandemia del nuovo secolo, senza precedenti in tutta l’epoca repubblicana.
E mi stupisce come in tanti – e anche personalità con alte responsabilità istituzionali o di governo – la continuino a chiamare “guerra”. Abbiamo visto governatori invocare l’intervento dell’esercito, capitani incappucciati che inneggiavano a reazioni popolari. E, ancora peggio, qualche sindaco scimmiottare il suo stesso ruolo. I fatti dello Stretto hanno assunto i connotati della vergogna, una pagina indegna del nostro Paese e della nostra storia.
Anche la Presidente Santelli ha chiesto che in Calabria venisse in aiuto l’esercito. Eppure le nostre città e le nostre strade sono deserte, i nostri borghi sembrano fantasmi senz’anima. Ma capisco il momento e le contingenze, e lascio ad altri il terreno della polemica. Voglio porre, invece, alla nostra Presidente solo poche righe di riflessione.
Ho una formazione politica diversa e lontana dalla Sua, ma L’ho ammirata, profondamente, quando si è presentata ai calabresi provata e affaticata. Le ho apprezzato il coraggio di donna, e di calabrese. E L’ho sentita vicina come cittadino e come padre. Sono stato Sindaco di un piccolo paese di periferia. E grazie a quell’esperienza, complessa e difficile, ho compreso cosa significhi veramente amare la propria terra e la propria gente. Quello che di più rimpiango è di non aver osato abbastanza. Voglia cogliere il mio augurio di osare, fortemente, il tempo che la nostra gente Le ha assegnato. Vada oltre le volgarità e gli egoismi delle dinamiche del potere. E ne sarà capace, perché ha già dimostrato di essere una donna forte.
L’immagine che di questo tempo vorrò mantenere intatta è del mio Paese innamorato delle sue infermiere. Un esercito d’infermiere ci ha riconsegnato l’orgoglio del Tricolore.
Scriveva Gesualdo Bufalini che un altro esercito, quello delle maestre elementari, un giorno vincerà le mafie. Riparta da quell’esercito, Presidente. Le maestre calabresi, le assicuro, hanno una marcia in più. Le vedo, quotidianamente, distribuire amore e sapientia ai figli di questo secolo faticoso. E basterebbe solo portare tutte le nostre scuole a tempo pieno per richiamare in Calabria le altre diverse migliaia costrette a lavorare nelle regioni del nord, spesso lontane dai loro affetti e dai loro figli. Pensi a quell’esercito, Presidente, e avrà già inaugurato la stagione del dopo. Che arriverà, ne sono certo, presto.
* scrittore, maestro elementare