di Rosario Rocca*
Venerdì Santo. Chissà se sulla via del calvario, quel giorno di quasi duemila anni fa, c’era un sole come questo. Le rondini che ondeggiano incrociandosi e sfiorandosi è come se volessero ricordarci che verrà comunque un tempo di resurrezione. Intanto noi siamo cambiati, siamo già diversi. Proviamo sensazioni nuove quando ci svegliamo al mattino, quando osserviamo un tramonto, un albero, uno scorcio di paesaggio che nella quotidianità frenetica del prima quasi sfuggiva alla nostra vista. Abbiamo smesso di correre da un bel po’ ormai, da tantissimi giorni. Pare un’eternità. Ci siamo fermati, senza rendercene conto, a osservare le cose del mondo più da vicino. E ci siamo fermati a pensare. Neanche le chat con gli amici e i colleghi di lavoro sono banali come prima. Non sono più essenziali, non abbreviamo le parole e, soprattutto, non le maltrattiamo con utilizzi impropri di “X” e “Ke”. Chattiamo pensieri profondi. Lunghi, a volte. L’altra sera, un mio amico mi ha scritto che, per la prima volta nella vita, ha pensato alla pena dei carcerati costretti a “quarantene” più lunghe e meno comode delle nostre. Senza la vicinanza degli affetti, Netflix e il frigorifero. Senza la luna, perché la sera non è prevista l’ora d’aria. Ci ho pensato. A come possa essere la vita senza guardare la luna per molti anni. E mi è tornata in mente l’immagine del ladrone buono accanto al Cristo in Croce. Non avevo mai considerato la condizione di quell’uomo che, inconsciamente, percepivo solo funzionale a corredare di maggiore pathos lo scenario già drammatico di uno dei momenti più sentiti e celebrati della storia del Cristianesimo. Anche nelle rappresentazioni teatrali della Passione, i ladroni – tutti e due, quello buono come quello cattivo – venivano scelti quasi a caso. Spesso erano attori che svestivano di fretta i costumi dei personaggi che avevano interpretato, per indossare qualche pezza avvolta alle parti intime e salire su croci di fortuna al momento della Crocefissione, trattenendo a stento le loro pance abbondanti. Al pari dell’altro ladrone, anche quello buono è indegno di memoria. A nulla è servito il suo pentimento. È, come l’altro condannato, una comparsa. Insignificante al cospetto del Figlio di Dio. Eppure Gesù Cristo, nonostante la sofferenza di quegli interminabili momenti, ebbe per lui parole di clemenza. Sembra che quel Venerdì Santo stesso, con parole strozzate dal dolore, gli mostrò la strada del Paradiso. Ma la sua consolazione durò solo un giorno. Dal seguente e per tutti i millenni che vennero avanti, donne e uomini di fede lo degradarono alla sua originaria condizione di condannato. Rimase uno dei due ladroni, a prescindere dai suoi sentimenti, dalla sua storia e anche dal suo pentimento. Figlio di un dio minore, per sempre.
Diversi anni addietro, un Venerdì Santo, mi capitò di dare un passaggio a una donna anziana dei paesi nostri. “Vaiu ‘o paisi ca oj carcerannu ‘u Signuri”, mi fece lungo il tragitto. Pensai lì per lì che la sua descrizione del Venerdì Santo fosse nient’altro che il frutto di una sorta di retaggio culturale, magari per legittimare la condizione di qualche parente che aveva avuto problemi con la giustizia. Ma non diedi peso alla cosa, trovai solo curioso il modo con cui la vecchietta paragonava Gesù Cristo a un carcerato qualunque. Poi, a distanza di anni, ho pensato a quella donna con i capelli raccolti a corona e una gonna nera fino alle caviglie che, quel Venerdì Santo, andava a piangere il suo Dio carcerato. E compresi il senso delle sue parole. Forse le piaghe del Nazareno sono ancora vive di sangue nelle pene degli uomini del mondo.
*scrittore