di Rosario Rocca*
La modernità che ci è stata tanto osannata e confezionata è un giro di vite che si ripetono. Frustrazioni, paure e fatiche che si ripetono. Le passioni no, quelle sono uno scarto. Come rottami, smartphone di penultima generazione, terre incolte. Come vite in esubero. Quando lessi Bauman per la prima volta, mi colpì parecchio la sua analisi lucida sulla “società liquida”, ma era un tempo in cui non credevo che idee e teorie astratte potessero, in qualche modo, essere traslate anche nel mio mondo. E non immaginavo che la mia terra, lontana dagli occhi e dalle percezioni del Mondo (l’altro, quello sconfinato), fosse già stata destinata a immondezzaio globale. Eravamo già scarti umani, senza saperlo. Terra di avanzi materiali. Le navi dei veleni, abbiamo appurato, non erano poi una fantasiosa ipotesi complottista, eppure anche la denuncia di quell’assessore all’ambiente scomodo è stata via via interrata insieme ad altri rifiuti indifferenziati. E siamo anche terra di discariche morali. La criminalizzazione dei nostri paesi e della nostra gente è stata funzionale soprattutto a escludere la Calabria dalle agende di sviluppo. La ‘ndrangheta è una questione diversa, non è la Questione. Il paradosso è che, come tutte le regioni povere del mondo, continuiamo a produrre e subire scarti ulteriori. Poveri che partono, emigrano, a condurre lotte solitarie nella giungla globale. Disarmati, tanti saranno scartati altrove.
Gli eventi catastrofici della storia hanno sempre segnato comunque un solco. E anche questa pandemia produrrà effetti analoghi alle epoche precedenti. Il secondo dopoguerra – qui da noi, in Italia – fu inaugurato da un’immagine e da un sentimento forte. Da un lato, fame e macerie. Dall’altro, la speranza. Quella generazione, quella dei ragazzi del Quarantacinque, reagì. Seppe rialzarsi e tracciare un futuro diverso e migliore per i figli e i nipoti che vennero a seguire. Certo, allora nessuno poteva immaginare che sarebbe andata a finire così. Oggi è tutto diverso, e il dopo è già segnato dal rischio che il sentimento prevalente sia di assuefazione e non di speranza. Qui da noi-noi, poi, in Calabria, il senso dell’adattamento ha assunto nel corso dei decenni, per vocazione e inerzia, un livello così sedimentato e diffuso da appiattire ogni segnale debole (o potenziale) di rivalsa civile. Ogni sentimento collettivo, con aspirazioni che vanno poco oltre la sopravvivenza, è da considerarsi scarto pericoloso. Qui, come altrove del resto. In Calabria, il regionalismo ha prodotto effetti ancora più devastanti rispetto alle altre regioni (anche del sud). Le classi dirigenti si sono formate e conservate attraverso circuiti di consenso malato. Io-ti-do-e-tu-mi-dai-compare. Punto. Adattamento alla logica del favore, della conservazione parassitaria del potere. Quante miserie in corpo solo! Anche l’attuale compagine di governo regionale è figlia di questa dinamica ciclica di alternanza, con la variante di un passamontagna e di qualche rosario da esporre nelle patetiche conferenze stampa di casa nostra. Eppure siamo un popolo. Disarmato, offeso, depresso. Ma lo siamo. Siamo chiamati a esserlo, per quello che sarà, non di noi, ma dei nostri figli. Il dopo non si può delegare, è una questione troppo importante da consegnare a quattro faccendieri sgrammaticati e senza visione. Siamo gente di accoglienza e fatica, di pulsioni sanguigne e sentimenti appassionati, di contraddizioni irrisolte. Toccherà a noi rialzarci. Da veri calabresi, italiani, europei. Tocca a noi, adesso, ritrovare lo spirito generale che può farci popolo.
In questo tempo di pandemia, qualche bella lettura mi ha portato in Cile. Mi è parso di captarne le tensioni ideali, le credenze popolari, persino i profumi. La scrittrice, quella omonima e parente del Presidente che ammazzarono diversi anni prima che nascessi, nel suo ultimo romanzo, parla della sua terra come un lungo petalo di mare. E ho pensato alla Calabria. Anche qui sembra di vivere su un lembo fragile di terra, sospeso tra brevi alture e il mare. Proprio ieri, il virus maledetto si è portato via un grande scrittore di quel meraviglioso Paese. Siamo più poveri, ma ci ha lasciato le sue parole. Da ascoltare, vagheggiare e, se solo provassimo, realizzare. Aveva scritto, quel visionario, che vola solo chi osa farlo.
*scrittore