di Rosario Rocca*
Anche l’attuale Ministra dell’Istruzione mi era sembrata un po’ spaesata nella mischia di un governo improbabile. Con un nome improbabile, tra l’altro. Come certi terzini degli anni ’80, che lo capivi già dal nome che non avrebbero mai buttato sangue e sudore sulla corsia mancina del Bernabeu. A fronte dei giganti Cabrini, Antognoni, Altobelli, se ti chiamavi Cuccovillo** ti era già andata bene se la tua figurina Panini fosse così rara da diventare preziosa quanto quella di un Rummenigge. E più o meno così pensavo della Azzolina, buttando ogni tanto un occhio a qualche aggiornamento che il sindacato della scuola si premurava a farmi pervenire sulla mail.
Ma poi, come tanti, ho avuto modo di sentirla e apprezzarla in questi mesi d’emergenza. Si è dimostrata sobria. E non è poco, visto che alla sobrietà istituzionale ci eravamo ormai disabituati da più di qualche tempo. Non ho nulla da contestare, come tanti amano fare dalle loro infallibili tastiere, agli strumenti messi in campo per mitigare in qualche modo gli effetti inevitabili di quella che, anche se con dinamiche collaterali, è diventata anche un’emergenza didattica. Non credo che altri giganti – e ne abbiamo avuti tanti nel corso della Prima Repubblica –, con nomi e volti importanti rimasti nei vari Pantheon della partitocrazia, avrebbero potuto fare di meglio.
Solo una cosa. La scuola, appunto.
Mi è parso di capire che le insufficienze, i debiti formativi, che i ragazzi avranno accumulato durante l’anno scolastico – o nell’ultimo triennio, i maturandi – non saranno abbonati in sede di valutazione. Tutti promossi, ma senza carezze ulteriori. Chi aveva 4 si troverà il suo quattro in pagella, con la possibilità di recuperare nel corso del prossimo anno. Ma lasciamo da parte direttive e farragini tecniche, qua non interessano. Andiamo ai debiti e ai crediti. Alla loro irrazionale applicazione nel mondo dell’istruzione che, certo, non possiamo addebitare alla povera Azzolina. Nel corso del tempo, i riformatori dell’istruzione hanno voluto istituzionalizzare una certa logica aziendale nel mondo della formazione. Della conoscenza. Ridotta tragicamente in crediti e debiti. Già sul finire degli anni Sessanta i ragazzi di Barbiana contestavano alla scuola ufficiale i suoi meccanismi di selezione. Come questi continuavano a dividere il mondo in ricchi e poveri, arrivisti e vinti. Sconfitti. Indebitati. E ancora oggi, forse più di allora, tendiamo a insegnare ai ragazzi a come accaparrarsi dei crediti, piuttosto che la ricerca e la bellezza della conoscenza. La scuola continua ancora ad ammaestrare e addomesticare arrivisti e vinti. E sempre meno donne e uomini liberi. Menti critiche. Qualcuno, in questo tempo di ordinaria tecnocrazia, sono certo che potrebbe obiettarmi che lo esigono i mercati. Anche la sinistra, del resto, ha dato il suo notevole contributo ad aziendalizzare la scuola. A proiettare e accomodare le generazioni future alle logiche ciniche dei mercati. Numero chiuso per i nuovi padroni, per i medici, i facchini, gli artigiani, le badanti. Pochi posti per le scelte libere. Finanche per i disoccupati, perché gli altri – tutti gli altri – saranno destinati all’ammasso in esubero.
Tant’è stato, ma niente sarà come prima. Forse.
Pensare al ritorno nelle aule è la condizione essenziale della programmazione del dopo. E il Paese – e il pianeta – ha bisogno non d’illusioni, ma di speranze. Sarebbe un bel segno se questo avvenisse attraverso i suoi ragazzi. E i ragazzi, anche i più svogliati, quelli poveri, come quelli già arrivati, sanno sempre cogliere segnali di speranza. Perché, a differenza degli adulti, hanno dalla loro parte la forza dell’incoscienza. Quest’anno ogni diplomato, come annunciato, sarà promosso. A ognuno, a prescindere dal voto, bisognerebbe assegnare simbolicamente anche la lode. Sarebbe come dirgli vai ragazzo, adesso tocca a te, il mondo è tuo. Il mondo può cambiare cambiando le cose. Scompaginando l’ordine delle cose. Un’amnistia dei debiti formativi, per esempio, rappresenterebbe un segno di cambiamento. Perché i debiti non c’entrano nulla con i sogni dei ragazzi, con le loro ansie, le loro emozioni, i loro sentimenti. Semmai la società – e la scuola, in modo particolare – è in debito con i suoi ragazzi. Soprattutto con quelli che ha perso per la strada. E’ in debito in termini di bellezza sottratta, di diritti negati, di esistenze marginalizzate. E nulla c’entrano neppure i crediti. Comprendere l’armonia di un dipinto di Van Gogh, un verso inquieto di Alfieri, le emozioni trasmesse dalla punteggiatura, l’immensità delle costellazioni non possono essere percepiti come crediti da acquisire. Ma come qualità conoscitive e morali per elevarsi oltre le disgrazie di un mondo sordo e immutabile.
Ma oggi è il 1° Maggio.
Scrivevano, sempre quegli immensi vinti di Don Milani, che nella scuola normale si insegnava ossequiosamente il latino, ma non a leggere e capire un contratto collettivo di lavoro. E contestavano al sindacato uno scarso interesse per il mondo della scuola. “I sindacalisti per ora non ne vogliono sapere. Dicono che in una democrazia moderna ogni ente ha la sua funzione e non deve scantonare… E intanto lasciano che i giovani vengano su alla scuola del padrone”. Oggi potremmo dire dei mercati, ma con le stesse parole. Con la stessa indignazione. Con lo stesso coraggio.
E magari potremmo insegnare ai ragazzi che è bene avere sete di conoscenza e non di crediti. Che è bene battersi perché tutti, un giorno, possano avere e amare il loro lavoro. La loro vocazione da portare avanti in una società più equa e più giusta. Perché solo la conoscenza – e il lavoro – li renderanno donne e uomini liberi.
*scrittore
**discreto terzino del Bari di Bruno Bolchi