di Gianluca Albanese
LOCRI – Tra le tante critiche mosse al suo operato amministrativo, sempre basate sulla scorta di documenti ufficiali e senza mai indulgere al “sentito dire”, dobbiamo riconoscere una grande dote al sindaco di Locri Giovanni Calabrese: l’innata abilità, da consumato comunicatore, di trasformare in occasione di visibilità e pubblicità per sé e per la sua amministrazione, parecchie occasioni pubbliche, dalle ospitate televisive nei talk show della domenica pomeriggio, alle polemiche coi vari Gian Antonio Stella e Klaus Davi, poi finite, irrimediabilmente, a “tarallucci e vino”, fino alle campagne mediatiche condotte contro quelli che ha reiteratamente definito “i fannulloni”, ovvero i dipendenti comunali, per la verità mai suffragate da inchieste della magistratura e conseguenti operazioni, come invece è accaduto in molte altre parti d’Italia.
Insomma, il sindaco di Locri è telegenico e questo gli va riconosciuto.
Oggi, in un momento tra i più difficili per la sua amministrazione, con la spada di Damocle del giudizio della Corte dei Conti sul piano di rientro, che nella malaugurata ipotesi di un esito negativo condurrebbe al dissesto finanziario dell’Ente, Giovanni Calabrese, in pubblico, evita l’argomento. Idem per le difficoltà finanziarie dell’Ente che impediscono, tra l’altro, di assicurare il servizio di mensa scolastica e che potrebbero condurre alla revoca del finanziamento per il centro di aggregazione giovanile “Cura ut Valeas”.
Oggi, il sindaco di Locri preferisce proiettarsi al prossimo 21 marzo, quando il comune da lui amministrato ospiterà la Giornata della Memoria di Libera, il coordinamento di associazioni protagoniste della stagione dell’antimafia sociale. Una giornata in cui si ricordano le vittime della violenza mafiosa che, purtroppo, non mancano nemmeno da noi.
E allora, nel rinnovare la nostra personale vicinanza a Liliana Esposito Carbone, Mario Congiusta e tutti i familiari delle vittime cadute per mano mafiosa, che sicuramente marceranno a Locri il prossimo 21 marzo, non possiamo esimerci dal compiere qualche considerazione sull’idea al vaglio della seduta del consiglio comunale di giovedì prossimo, ovvero di conferire la cittadinanza onoraria di Locri al fondatore e leader di Libera, ovvero don Luigi Ciotti.
Calabrese, per non sapere né leggere né scrivere, ha messo le mani avanti: ancor prima della deliberazione del consiglio comunale, infatti, ha fatto sapere, con una nota stampa appena diffusa, che l’idea è stata sua, che sicuramente tutti la approveranno, prendendosi, implicitamente tutti i meriti dell’iniziativa.
E’ il marketing, bellezza.
Quello che impone a un politico l’uso sapiente dei simboli, delle icone e delle manifestazioni, per dare dei segnali. Quello che si vuole dire, insomma, è che Locri, la sua amministrazione e la sua gente, sono contro tutte le mafie, certi che il messaggio troverà ampio spazio non solo sulla stampa locale – in molti casi pigra e acritica – ma anche e soprattutto su quella nazionale e farà il giro dei social network, con tanti “like”, “retweet” e “condivisioni”.
Un “piccolo spazio di pubblicità”, insomma.
Ma siamo proprio certi che l’icona di don Ciotti sia la più indicata per dare questo segnale, tanto da dargli la cittadinanza onoraria, che già era stata attribuita, in questa consiliatura, al numero uno di “Call & Call” Umberto Costamagna, imprenditore nel settore dei call center e in rapporti d’affari col sindaco di Locri da diversi anni?
Secondo alcune voci autorevoli, infatti, la stella di don Ciotti sarebbe in declino, soprattutto per via di alcune defezioni importanti a livello nazionale.
Alcuni libri usciti negli ultimi mesi, ad esempio, dicono cose molto interessanti.
L’ex presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Francesco Forgione, infatti, ha dato alle stampe, a fine 2016 “I tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti” (Rubbettino, 2016), in cui dà notizia di alcune defezioni importanti da Libera, e delle relative polemiche che costrinsero l’attuale Commissione Parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi a indagare sulle associazioni della cosiddetta “antimafia sociale”, compresa Libera.
Proprio il giorno in cui don Luigi Ciotti è stato audito in Commissione, il magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli Catello Maresca, il Pubblico Ministero che nei processi a carico del clan dei Casalesi sostiene l’accusa, ha rilasciato un’intervista al settimanale “Panorama” in cui dice, tra l’altro che «Libera è stata un’importante associazione antimafia, Ma oggi mi sembra un partito che si è attribuito un ruolo diverso. Gestisce – spiega il magistrato campano – beni sequestrati alla mafia in un regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa».
C’è di peggio, perché il Pm della DdA di Napoli rincara la dose quando dice che «Per combattere la mafia occorre smascherare gli estremisti dell’antimafia, i monopolisti di valori, le false cooperative col bollino, le multinazionali del bene sequestrato. Associazioni nate per combattere la mafia – ha aggiunto Catello Maresca – hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi mafiose esse stesse. Sfruttano beni che non sono di loro proprietà, utilizzano risorse e denaro di tutti».
Un altro che si è allontanato da Libera è Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, parlamentare siciliano padre della omonima legge che introduce il reato di associazione mafiosa (articolo 416bis del Codice Penale) e della norma che prevede la confisca dei beni ai mafiosi, ucciso dalla mafia a soli trent’anni.
Franco Latorre, ex numero due di Libera, dopo aver duramente criticato la gestione dei beni confiscati e l’asserito eccessivo autoritarismo di don Ciotti, abbandonò Libera dopo un duro intervento all’assemblea nazionale del 2015, tenutasi a Perugia.
Francesco Forgione, nel suo libro, dà notizia delle repliche di don Ciotti a Maresca e Latorre, ma nel contempo scrive che «Nell’opinione pubblica la verginità di Libera è perduta, e le tossine dei dubbi e dei sospetti si sono diffuse dentro e fuori l’organizzazione».
E poi c’è il giornalista Antonio Amorosi, firma di “La Verità” e “Libero”, che l’anno scorso ha dato alle stampe “Coop Connection – Nessuno tocchi il sistema. I tentacoli avvelenati di un’economia parallela” (Chiarelettere, 2016) che dedica alcuni paragrafi a don Ciotti e alla lettera che un altro giudice, il calabrese Romano De Grazia, fondatore e leader del Centro Studi Lazzati, padre della legge che vuole impedire ai sorvegliati speciali di P.S. di fare campagna elettorale, scrisse a due alti prelati e con la quale, di fatto, si bloccò quella che Amorosi nel suo libro definisce come la scalata al Vaticano di don Luigi Ciotti «Arrivato alle porte del pontefice – scrive Amorosi – grazie ai buoni auspici di monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei».
Nella lettera si racconta la storia di Filippo Lazzara, un giovane siciliano che dopo un confronto con don Ciotti si convinse a denunciare le infiltrazioni mafiose nell’impresa in cui lavorava, tanto che lo stesso leader di Libera lo fece lavorare nell’associazione 1515, della galassia di Libera e poi nell’altra associazione “Filo d’erba” del Gruppo Abele. Quando però il giovane Lazzara chiese di essere assunto con un contratto regolare, don Ciotti, stando alla denuncia presentata dal ragazzo ai carabinieri nel mese di marzo 2011, lo aggredisce a calci e pugni, tanto da farlo finire al pronto soccorso con una prognosi di dieci giorni per trauma cranico.
Lazzara ritira la denuncia il 14 giugno – è scritto su “Coop Connection” – e il 21 giugno arriva un vaglia di 2.500 euro inviato dal Gruppo Abele e il 23 luglio un assegno da 5.000 euro firmato da don Ciotti «Apparendo – scrive Antonio Amorosi – come una transazione tra parti per risolvere una controversia fuori dalle aule giudiziarie».
E se, comunque, don Ciotti provvederà poi a fare assumere regolarmente la fidanzata di Filippo Lazzara, rimane l’amara considerazione dello stesso Giudice di Cassazione Romano De Grazia, che dopo aver chiesto a tutto l’arco parlamentare e alla stessa Libera una collaborazione per fare approvare il testo originale della Legge Lazzati, per impedire davvero alle mafie di orientare il consenso elettorale attorno ai propri candidati di riferimento, dice, in pratica, che tutti hanno fatto spallucce: «Certo, se per una remota eventualità – dice De Grazia ad Amorosi – risolvessimo il problema delle mafie si toglierebbe la biada al cavallo. Libera, invece di fare l’antimafia che fa? Come lo alimenta il suo potere?».
Fin qui un paio di indicazioni bibliografiche che ci permettiamo di dare sia al sindaco Calabrese che a tutti i nostri lettori che, come noi, sono fermamente convinti che bisogna combattere la mafia con il nostro agire quotidiano in tutte le attività che conduciamo, e che non basta ricorrere ai simboli e alle icone.
Indossare una maglietta con l’effigie di Che Guevara al concerto del I maggio a Roma non fa di un ragazzo qualsiasi un rivoluzionario.
E allora, se proprio si vuole dare una cittadinanza onoraria, perché non darla a quegli esponenti di forze dell’ordine e magistratura che ogni giorno realizzano indagini e operazioni tese a scardinare la più potente organizzazione criminale del mondo?
Da queste righe vuole arrivare una modestissima proposta: perchè non dare la cittadinanza onoraria di uno dei nostri comuni a Federico Cafiero De Raho, magistrato di alta scuola a capo della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che con le sue inchieste sta arrivando, lontano dai riflettori, dai talk show e dai salotti, a colpire anche il livello maggiore della “cupola” toccando, oltre all’ala militare della ’ndrangheta, anche quella che va a braccetto con la massoneria deviata e troppo spesso decide i destini politici della nostra regione?