di Patrizia Massara Di Nallo
Remon, quattordici anni, si vede costretto ad abbandonare la sua famiglia ed a scappare dalla sua terra, l’Egitto. Nella guerra civile tra egiziani e musulmani gli attacchi contro i cristiani e contro le chiese si sono moltiplicati “ fino al giorno in cui la violenza che riempiva le strade della mia città non è arrivata persino tra i banchi delle aule” e il bullismo si è intrecciato con l’odio religioso fino a sfociare in una situazione insostenibile. Sono i periodi brevi della scrittrice Francesca Barra a fotografare la realtà in sequenze drammatiche e ad accompagnare le ferite della memoria facendoci condividere la subdola guerra psicologica che Remon deve combattere giorno per giorno in un clima di terrore che gli fa temere per l’incolumità dei suoi familiari e per l’impossibilità di avere un futuro “Ma io ho il diritto di desiderare di essere un uomo libero.” E’ così determinato nel voler realizzare il suo sogno, quello di diventare un ingegnere, da partire all’insaputa dei genitori ed è subito fuori dalla porta di casa che Remon diventa “diverso” senza più battiti in petto o parole in bocca come se il suo alter ego avesse preso il sopravvento ed avesse incominciato ad agire al suo posto. Con lo struggente fardello di nostalgia per i genitori e per il fratello, per quel rispetto e affiatamento con essi tali da render talvolta superflue le parole, viene quindi catapultato in un mondo dai valori annullati in cui sulla pelle dei migranti dilaga un’estrema speculazione “Sono entrato a far parte di un nuovo popolo, in cui bisogna fare i conti con molte cose. Prima di tutto con sé stessi, poi con il pudore, la vergogna, la paura. Questo è il popolo dei migranti.”
Il viaggio. Remon non sa nuotare. Viene fatto imbarcare e, a turno con i suoi compagni, rinchiuso nella stiva in scarsissime condizioni igieniche. Mentre il disumano viaggio aliena sempre di più la sua dignità, invece la paura del mare e degli scafisti alimenta una sorta di incosciente coraggio ad affrontare nuovi ostacoli, a sopravvivere “In quel momento dovevamo essere tutti estranei, tutti egoisti. Perché conoscerci voleva dire preoccuparsi di un’altra vita”. Il panico lo assale e si muta in incubo, in uno stato di torpore in cui , nella sospensione del tempo, non si rende nemmeno conto di quando arriverà la fine del viaggio. E’infatti solo la paura che, variando di momento in momento per eziologia ed entità, tiene in contatto con la realtà circostante facendogli capire di essere ancora in vita in un’atmosfera surreale in cui cielo e mare si confondono“Ho pensato: Ma che fine hanno fatto le stelle? Può la distesa del mare nasconderle? Perché intorno c’era solo buio.” Continui sono i flashback narrativi che, in un susseguirsi di immagini dense e vive, rimandano come onde il lettore ora sulla terra ora in alto mare, dall’angoscia filiale della solitudine all’abitudine familiare di raccontarsi favole fino alle usanze egiziane dagli splendori cromatici e sonori, dalla domestica atmosfera durante le Feste cristiane al profumo delle tradizionali pietanze cucinate dalla madre. Nei rari momenti di pace, come li definisce Remon, si può udire il canto di una mamma, assistere ad una nascita o allo scherzo di un bimbo, osservare i delfini che circondano la barca. Sono però solo gli occhi di un ragazzo che a sprazzi non cessano di essere tali ritornando a scorgere le stelle in cielo e il tramonto, la poesia della natura e il miraggio del futuro “Quella notte , guardando il mare, ho visto il riflesso della stelle. Finalmente erano tornate.” Mentre Remon ricorda tremante “Nella notte del sesto giorno finalmente abbiamo visto le luci delle coste italiane da lontano” è proprio in prossimità dello sbarco che altri pericoli irrideranno la sorte di quell’umanità straziata e mercificata a tal punto che per non far sequestrare la barca originariai migranti vengono trasferiti su un altra imbarcazione più piccola e precaria “era così appesantita che riuscivamo a toccare il mare con le mani.”
L’arrivo in Italia. Dopo il fortunoso arrivo in Italia, Remon viene trasferito in un centro di accoglienza. Lì lo attendono non solo disagi fisici in un’attesa interminabile fra le liti e la fuga di alcuni migranti, ma soprattutto disagi psicologici per l’atteggiamento quasi asettico dei soccorritori da cui il ragazzo vorrebbe invece informazioni e rassicurazioni sul proprio futuro. Più della fame e della sete sofferte durante il viaggio, ora, ancor più, lo segna l’indifferenza di un luogo dove vengono sì soddisfatte le necessità primarie, ma non quelle inquietanti dell’anima quali il legittimo desiderio di dare sue notizie ai genitori. Un giorno, in quell’estenuante limbo, gli viene prestato un telefonino ed è la voce della mamma che finalmente inizia a riconciliarlo con il mondo mentre più tardi il trasferimento in un altro centro per minorenni gli restituisce la sua identità e dignità: non è più il numero 92, ma di nuovo Remon. Riacquistando progressiva fiducia in coloro che lavorano nel centro, esprimerà il desiderio di essere affidato ad una famiglia e di poter continuare gli studi. Da quel momento in poi, quindi, entrerà in contatto con una generosa realtà umanamente ricca di promesse e di donazione gratuita, con due coniugi che lo ospiteranno e per gradi lo faranno sentire a casa propria pur nella difficoltà della lingua e della differente cultura, ma nella serenità del quotidiano e di nuovi affetti. Il tempo smorzerà le naturali apprensioni dei genitori affidatari mentre Remon riuscirà perfino a inserirsi a scuola e a riappropriarsi della propria adolescenza sempre accompagnato dalla Fede e da un neonato senso di libertà. Una storia a lieto fine che si sviluppa intorno alle amare constatazioni e ai timidi sorrisi di un adolescente trasformatosi , lui stesso, in una barca in mezzo al mare. Attualmente Remon spera sì di ritornare dai genitori e nella sua terra natìa , ma considera l’Italia la sua nuova patria. In questo libro Francesca Barra porta avanti con estrema discrezione una complessa indagine sentimentale pur rimanendo con eleganza stilistica dietro le quinte. Il risultato della sua regia è un racconto-diario, volano di un messaggio etico, a tratti poeticamente struggente pur nella complessità tematica. L’A. infatti, rispettando il modo di raccontarsi e di raccontare del ragazzo protagonista, adotta con limpidezza espressiva una cifra stilistica calibrata, piana ed emozionante per contenuto e naturalezza narrativa soprattutto evidenziando un’umanità autentica che non trova giustificazioni alla propria apatia e si industria silenziosamente con la tenace consapevolezza di ciò che può fare per gli altri e al contempo per sé stessa. “Ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,5) non smette di interrogarci in questo racconto-testimonianza che con rigore intellettuale non minimizza le difficoltà dello scontro-incontro tra due culture, né enfatizza la volenterosa mediazione tra esse e la vittoria dell’amorevole e incondizionata accoglienza.