di Francesco Tuccio
In lontananza il latrato dei cani cresceva avvicinandosi minaccioso in un punto dell’orlo della radura montana.
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Alex, il giovane battitore della squadra dei cacciatori di San Nicola, aveva scoperto le orme nella terra molle e l’erba bagnata.
Con l’ansia contratta nel respiro trepidante aveva incitato la muta sulla pista giusta, che ora ansimando con le orecchie svolazzanti al vento sentiva più forte e fresco l’odore delle prede.
I cinghiali, acquattati nella tana adombrata da una fratta intricata, si svegliarono di soprassalto.
La madre s’avvide subito del pericolo mortale e d’istinto balzò all’aperto per affrontare i cani e dare tempo ai figli per darsi alla fuga.
Le madri dei cuccioli e dei giovani cinghiali sono protettive e gelose, raramente lasciano i figli e non prima di averli nascosti sotto una coltre di frasche e di rami, e questa era furibonda: scalpitava e menava la coda sibilante come una frusta; rizzava la criniera sulla schiena e tendeva le orecchie; dalle lunghe froge emetteva sbuffi secchi e infuocati; sbatteva i denti e schiumava.
Ruggendo e con la bocca aperta caricò il più spinto e coraggioso della muta.
Lo azzannò ripetutamente e lo lasciò cadere in un nuvolo di guati lancinanti.
In quell’istante, i figli scoccarono come frecce mirate nella stessa direzione.
I cacciatori appostati, lesti e impassibili all’estremo atto d’amore a cui avevano assistito, scaricarono una gragnola di palle asciutte.
Nell’aria attonita risuonarono i colpi come rumori di tuono seguiti dagli echi penetranti le pieghe e il solco della valle, risalirono tanti camini di fumo bianco e si espanse pregnante un acre sapore di polvere.
Uno dopo l’altro si sentirono confusi gli schianti e i rotolii dei corpi abbattuti nella corsa per la vita; dalle scie di sangue sull’erba inumidita schizzarono vapori selvatici di querce e di lecci, dei loro mondi arcani e solitari, e contratti nello spasmo le zampe strepitarono frenetici nell’ultima implorazione vitale, e gli occhi spalancati fissarono il freddo e distante cielo beffardo.
Animali mitologici dei popoli antichi, dalla natura ebbero in dono il regno delle tenebre per cacciare la serpe e la vipera, nutrirsi di tuberi, di radici e di frutti del bosco.
E Il giorno gli fu donato per dormire grugnendo, per sognare i cuccioli avidi attaccati alle mammelle rigonfie, le polle d’acqua quiete e ridondanti, la cascata copiosa delle ghiande mature, lo spuntare improvviso dei funghi e lo sbocciare delle fragole rosse e odorose.
Nell’alternarsi tra il giorno e la notte, il buio e la luce giocavano il senso della loro vita primitiva e selvaggia, il proliferare della progenie.
E la luce gli fu fatale e nefasta.
Uno dei giovani cinghiali, il più forte e alto una spanna in più dei fratelli, si era staccato, aveva aggirato i cani e preso la direzione da cui Alex assisteva alla scena.
Il giovane si vide perduto, la faccia euforica per la battuta prodigiosa si trasformò in un limone ingiallito.
Aveva davanti a sé un breve declivio e si lasciò scivolare lacerando la giubba arancione che lo distingueva.
I cacciatori non poterono sparare di nuovo per paura di colpire il loro prezioso battitore, e il cinghiale tirò dritto come una folata di vento per farsi inghiottire in un lampo dal fitto fogliame.
I cani infierivano sui cinque corpi stesi a terra, insanguinati e immobili, i cacciatori urlavano in un coro sguaiato e sollevavano in aria i fucili in segno di vittoria, ma Alex, pensieroso, tornò su quel tragitto per stampare nel cervello le pedate fuggiasche e profonde.
Quattro dita affondate nel terreno gli parlarono delle impronte inconfondibili di un animale che prometteva una taglia e un carattere eccezionali.
Guardò e riguardò tutto intorno e giurò qualcosa a sé stesso.
Pelata e squartata la carne fresca entrò nelle case, le griglie sui focolari attendevano ardenti e l’unto colante ravvivava le fiamme dell’allegria, si spargeva fumante come il racconto che inanellava una nuova avventura tra i sorsi del vino, mentre il cinghiale sopravvissuto tornava sui suoi passi ad annusare il sangue raggrumato che avrebbe impresso indelebile con l’odore dell’uomo, della polvere da sparo e il latrato dei cani.
Le nuove realtà prima ignote e ora implacabili lo ricacciarono eremita sulle cime dell’Allaro roboante, sugli acclivi più aspri, dove la pietra scalciata dagli zoccoli rotolava vorticosa nel vuoto delle falesie e delle gole abissali e l’acqua vi scorreva ripida e fragorosa.
I suoi impeti vigorosi crebbero senza le regole del branco, sotto i cieli nascosti dal folto dei rami e del fogliame, privi di sole e di luna e del luccichio delle costellazioni in cui gli uomini immaginarono le figure ardite degli animali che accesero gli umori ancestrali.
Nei sogni di Alex scorreva fulgido e nitido il mito della terza fatica di Eracle, intento nella lotta furiosa con il feroce cinghiale di Erimanto. Cercava i posti più remoti, i sentieri invisibili recintati dai burroni, dagli speroni di roccia, tracciati lievi dalla matita luccicante dei corsi d’acqua.
Là rintracciava le pozze dell’insoglio, il beato rotolarsi nel fango per pulire e sanare la cotenna coriacea dalle ferite ricevute nei combattimenti e dai rovi più acuti.
Là trovava gli abbeveratoi contornati dalle orme, il terreno sconvolto dal ruvido grufolare, le setole sfregate ai piedi delle querce, sui fianchi dei grandi massi taglienti e appuntiti. Misurava tutto con il metro dell’esperienza.
La sua preda parlava forte e chiaro.
Crebbero insieme nel volgere di poche stagioni.
Il cinghiale raggiunse la taglia del dominante su tutti i maschi per conquistare le femmine riunite in piccoli branchi con i loro figli.
E Alex raggiunse l’età per svestire la giubba arancione del battitore e imbracciare il fucile del cacciatore.
Lo accarezzava con gli occhi e le mani felpate meglio del cane, e infieriva certi buchi ai cilindri di latta per acquistare una mira infallibile per quando i loro passi si sarebbero incrociati.
Alex sapeva che nel periodo degli amori, il cinghiale sarebbe uscito dal territorio in cui regnava sovrano assoluto e solitario.
Avrebbe seguito le piste odorose dei gruppi delle femmine, gruppi di madri guidate dalle più anziane che avrebbero visto i giovani figli maschi dell’anno scacciati.
Solo le femmine infoltiscono i gruppi sotto l’occhio compiaciuto dei maschi più forti, e il cinghiale di Alex avrebbe mostrato in segno di sfida la corazza ispessita, grattato il terreno, cozzato testa a testa con i contendenti per ubbidire, al ritmo inesausto delle spinte dei suoi fianchi, alla missione irresistibile di diffondere nei versanti dei monti la progenie che avrebbe parlato di sé e della sua forza.
L’appuntamento avvenne inevitabile in una giornata di fine novembre.
Il sole mandava fasci di luce intermittente al passaggio di nuvole bianche e ampollose, e un fronte grigio di pioggia risaliva lento dalla marina. Il latrato della muta echeggiava nella boscaglia poco lontana.
Alex sin dall’apertura della stagione di caccia sceglieva le postazioni più defilate, suggerite da un presagio misterioso e istintivo.
Guardingo si muoveva piano e silenzioso tra gli arbusti brulli e il manto erboso ancora spruzzato da gocciole madreperla, quando a breve distanza si parò davanti all’improvviso la sua preda imponente, era di nuovo sfuggita ai cani e all’agguato dei cacciatori.
Alex puntò subito la canna del fucile in mezzo agli occhi del cinghiale, fece forza con la spalle e strinse le mani per vincere il tremore che lo pervadeva. Inspirò forte e attese il primo accenno dell’animale che, invece, stette immoto come se sfidasse un suo simile.
Non avevano paura, forse si faceva largo qualcos’altro d’imponderabile.
Gli animali non sanno prevedere il futuro, vivono tutto nel tempo presente e le memorie del passato prorompono guidandone le azioni.
Non sono soltanto istinto, ma anche vissuto, e al cinghiale quella faccia, vista vagare pacifica nel suo regno, gli era nota.
Alla fine di quegli attimi infiniti il cinghiale, forse, avrebbe attaccato irruente e Alex con un colpo secco gli avrebbe trafitto la fronte, ma nei loro sguardi il tempo vagava come sospeso.
Tra i due irruppe stentorea la voce del caposquadra Manno: “E’ tuo, Alex! Spara!” E vedendolo esitare lo incalzò di nuovo: “Spara, maledetto! Spara!”
E Alex premette il grilletto, il piombo sibilò nell’aria e schizzò ciuffi d’erba spezzata sul grugno.
Il cinghiale comprese e si dileguò fulmineo.
Anche il giovane aveva capito che la morte raggela i ricordi, li appende immobili alla corda del tempo e poi li deforma nelle lontananze della mente.
Soltanto la vita fa nascere i sogni, li rende mutevoli e nuovi come il giorno e la notte, il cambio delle stagioni.
E Alex non voleva smettere di sognare.