(foto di Totò Fragomeni)
di Francesco Tuccio
C’è sempre il soffio della solitudine a sospingere ogni post lanciato alla velocità della luce sulle larghe e infinite autostrade invisibili del planisfero di Facebook. Ad ogni ora del giorno corrono pensieri inesausti come folate di milioni e milioni di infime stelle brulicanti la volta globale delle cose ingannevoli e illusorie, futili e sincere, così com’è fatta la vita.
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Hanno immagini, colori, luci, suoni e parole diversi e mutevoli, evadono dalle menti sperse in stanze soffuse e remote per incontrare l’ignoto acquattato nelle pieghe delle latitudini di terra e di mare. E l’ignoto può avere la forza imprevedibile del destino fatale quando la sofferente solitudine annida nelle crepe contrite del cuore, e rivolge in alto la speranza, e l’affida al pulviscolo trepido delle costellazioni per trovare la felicità agognata nell’anima gemella. E, allora, il canto si fa canto di esacerbato dolore.
Lisa nel suo minuscolo angolo buio, permeato da un’aura intristita, poggiava lievi le dita sulla tastiera e le lacrime scendevano a dettare le parole: “Nella mia vita ho preso i treni immaginati in corsa verso le terre dei sentimenti e delle emozioni, dove il sole non conosce il tramonto e avvera i sogni inesplorati e nuovi; di ognuno ho creduto fosse quello giusto e definitivo, dell’amore che non muta al mutare del tempo, fino a quando il lambire di mani tremanti e scarne rinverdisce le primavere incantate della giovinezza finita, ma puntualmente e mestamente sono scesa nelle stazioni vuote, segnate come i gradini fatali della crescita lungo la scala del mio breve e incerto salire. Non nutro odio né rancore, ho preso sempre su di me la colpa perché non imparo e non so cambiare, non so indossare la maschera della falsa apparenza e rinunciare a ciò che sento e credo. Non chiedo nulla, amo l’amore, a lui mi dedico interamente, ed incondizionatamente non pretendo nessuno ai miei piedi prostrato. Libertà, fedeltà e rispetto devono intridere felicemente senza possesso, gelosia e sospetto.
Non so cosa provi e se mi cercherai. Io sono qui, dove tu mi vedi.”
Aggiunse il suo stato d’animo “triste” e cliccò su “Pubblica”: il post si diffuse istantaneamente tra tutti i suoi contatti. Lisa asciugò col dorso della mano i lucciconi colanti in rivoli contorti sulla pelle liscia delle guance arrossate ed attese, trepidante attese.
Il post della solitudine cadde nel vuoto delle solitudini di sguardi ciechi, forse commosse chi riconobbe la somiglianza di almeno un tratto buio del suo vissuto e non ebbe il coraggio di mostrarsi; non ricevette commenti di consolazione e neppure un “mi piace”. Solo silenzio: la crudeltà algida delle rete che non seppe affrontare la sofferenza e la ignorò con ostentato distacco. Forse, spargeva sgomento muto quel racconto succinto di una giovane vita amorosa sfortunata, di una donna che fuggita da un uomo violento lo cercava ancora, gli dettava le condizioni ed era disposta a credere alle nuove, vecchie, ripetute promesse mai mantenute. Lisa, dal forte senso del suo essere libero, librato nella vacua felicità delle terre sognate, naufragava in una attrazione ipnotica misteriosa, nella passione, nella struggente e irragionevole nostalgia di carezze e abbracci e amplessi gioiosi e crudeli, come fossero facce inscindibili, ineluttabili di un Giano bifronte, innanzi al quale il cuore cancellava la ragione e pagava un prezzo inumano per amare e sentire reale l’illusione di essere amata. Al momento del brusco distacco, dolorante e adirata, si era disfatta del cellulare e avrebbe cancellato il suo profilo su Facebook se avesse saputo come fare, ma ne aveva cambiata l’immagine ed eliminato le foto personali. Pensava di recidere i tentacoli conduttori al suo mondo stridente, reale e virtuale, per farsi dimenticare, cadere nell’oblio, ma ora, scordando tutto, scendeva di nuovo all’inferno come un ignaro agnello sacrificale.
Luigi, gonfio di livore arrogante, guardò il post e pensò fra sé: “eccoti tornata nella mia rete, ma non hai sofferto ancora abbastanza”. Cercò Lisa tra i suoi amici e la rimosse, non più avrebbero potuto comunicare. Lei se ne accorse non trovandolo nella cerchia dei suoi contatti e si sentì in frantumi ed umiliata come se le avesse sbattuto la porta in faccia. Ora, doveva soltanto smettere di cercarlo, imboccare la via tormentata della liberazione, e ringraziare iddio per quel che appariva un respingimento benefico, un usitato pericolo scampato nonostante la sua ricaduta.
Passarono mesi nel calore della casa del paese dove si era rifugiata, nei luoghi e tra le compagnie della fanciullezza sognante, turgescente della bellezza ignara affiorata, dei primi rossori pudichi, dei segreti innocenti, finché le giornate non allungarono il passo nel tepore di primavera, e Lisa fu illuminata da un’idea semplice e avveduta quando diviene libero convincimento: l’amore che fa male non può essere amore. Si rimproverò guardandosi allo specchio: “come ho fatto a non capire che la bestia si nutriva dei miei sentimenti, della mia carne? Mi azzannava ed io mi lasciavo sbranare irretita dall’illusione che sarebbe cambiato. Come ho potuto credere a promesse e blandizie, agli inganni che mi impedirono di stringermi forte all’amore per me stessa?” Il nuovo principio raggiunto, solido e chiaro, la fece rifiorire ed irrompere ancora nella rete:
“Nella mia vita il bello deve ancora avvenire. Sono caduta ed eccomi rialzata per cercare nuovi orizzonti con chi mi voglia sul serio.
E serio è chi è folle, imprevedibile, istintivo e sincero, che non ha tempo di pensare, che ha voglia di correre, partire, andare con il sole e la pioggia e mi trascina con sé, unendo le nostre vite.
Serio è chi, nelle notti di luna piena, siede incantato sulla riva del mare e mi prende le mani quando cerca le parole che le sue emozioni convulse gli impediscono di trovare.
Serio è chi sa perdersi nei miei occhi umidi quando un bacio sulle labbra non può bastare; sa sentirmi pulsare nelle sue vene quando mi assalgono quelle asperità e debolezze che non mi farà mai pesare.
Serio è chi non coglie nulla se non dà tutto se stesso e non dice mai sei mia perché l’amore è libero, non possiede e non è posseduto.”
Aggiunse il suo stato d’animo “speranzosa” e cliccò su “Pubblica”, il post si diffuse istantaneamente tra tutti i suoi contatti. Fu visto da molti, ricevette parole di augurio e compiacimenti; fu condiviso moltiplicandone la visibilità a dismisura. La rete seppe farsi calda e solidale.
Michele ha visto il post di Lisa attraverso la condivisione di un amico comune e l’ha cercata sul suo profilo per chiederle l’amicizia. Lisa gliela concesse dopo aver visto la pagina di Michele. Un intreccio di clic, azioni e pensieri improvvisi che portarono all’incontro due persone che si credevano assolutamente estranee e distanti, tra le quali nasceva un interesse, una simpatia eterea senza sguardi diretti, in maniera inaspettata e in una sorta di vuoto che Michele si precipitò a colmare commentando il post di Lisa.
“Io credo di essere serio e se sarà vero amore ti chiamerò compagna.”
Compagna, pensò Lisa, come compagna di giochi, di scuola, di vita. Compagni: l’incontro duraturo, coinvolgente sentimenti ed emozioni di due persone che liberamente si scelgono e decidono di camminare insieme su una strada paritaria e indipendente. Cliccò
“Mi piace” nel rettangolo del commento e aggiunse:
“Compagna va bene, ma se non nasce la passione rimane amicizia”.
Michele comprese che la risposta di Lisa era un invito a conoscersi. Si fece avanti e la contattò in chat. Scambiarono notti di parole, pause e silenzi, frasi che rivelavano esperienze, personalità, visioni e desideri di vita, mutamenti nei recessi delle fibre recondite dell’essere e del sentire. Tutto apparve più chiaro quando Lisa rimise nel profilo di Facebook la sua foto più recente. Era raggiante, sciolta, rinata; suggellava la sconfitta definitiva del passato caliginoso e spento, proiettava lo sguardo denso e terso di futuro. La nuova storia poteva cominciare.
Un centauro sfrecciava veloce sull’A3, non guardava il panorama che si apriva al ruggito dell’Harley, puntava a sud come fosse un messaggero in tuta e casco neri con bande argentate. Scavalcò la dorsale dei due mari e percorse la litoranea 106. Là, lo sposalizio del gelsomino con le brezze marine ingravidava l’aria di fragranze e profumi trascorsi, riempiva le notti estive mischiandosi ai sussurri che con labbra sottili risalivano incessanti dalla riva del mare, ma il centauro vide solo l’immondizia incontrare il salmastro e sentì acri zaffate entrare nelle nari. Straniero com’era, non poteva misurare quanto le antiche bellezze fossero degradate nella modernità artata, priva di vero progresso. La statale era pericolosa e affollata, attraversava, ad ogni piè sospinto, la vita dei paesi che su di essa si riversava assieme ai traffici di droghe e di armi. Si fermò un attimo per distendere la schiena e le gambe, capire in che posto era capitato e vide le spiagge erose, sconvolte dalle ultime mareggiate, i templi crollati, le rovine avviluppate dalle onde sfrangiate. Pensò che non vi fosse un angolo dove innamorarsi e, forse, questo era quel che cercava.
Sul lungomare le onde giungevano inquiete, dilagavano rumorose sulla battigia slargata, il vento di ponente spingeva un susseguo di spume che dipartivano dal lontano profilo dall’orizzonte. Lisa, con i capelli scarmigliati, era immersa nel bianco e l’azzurro cerulo delle giornate memorabili. Colori intonati con il vestito elegante indossato, con gli occhi e l’animo che brillavano di nuova luce e dell’energia che avvampava tutta se stessa. Non sapeva dove posare gli occhi e le mai, attendeva ansiosa e felice. Ripensava rassicurata alle parole di Michele: “Dimmi dove e quando, sarò puntuale anche dovessi fare dieci volte il giro del mondo”. I palpiti battevano forti nel petto, intensificavano il ritmo col volgere dei numeri del cellulare verso l’ora fissata.
Il rombo dell’Harley si distese puntuale sul breve rettifilo che incrociava il lungomare. Il centauro parcheggiò il grosso due ruote, lo scavalcò e si avviò nella direzione di Lisa. Slacciò il casco lentamente e quando le fu vicino lo tolse: apparve un sorriso crudele e beffardo, un ghigno sprezzante e compiaciuto. Lisa strasalì, senti il sangue raggelarsi, rimase sospesa nel turbinio del terrore, ma trovò la forza di reagire.
“Vattene via, non è te che aspetto!” Gli gridò tesa, stringendo le dita nel palmo delle mani con tutta la sua forza.
“Lo so che aspettavi Michele! Io sono Michele. Io sono Luigi. Io sono quello che voglio. Posso avere mille volti e mille profili, Facebook me lo consente perché è mio complice, mio muto e fedele alleato che uso come mi pare. … Mi hai abbandonato per venire da me, e con me stesso mi hai tradito, povera stupida puttana!”
Lisa comprese la tragica tagliola in cui era caduta. Scappò via gridando: “Sei un mostro!” E il mostro, con slancio belluino, la raggiunse rabbioso e la strinse contro la corteccia scagliata di una palma appesa al cielo. Mani artigliati le attanagliarono la gola. Lisa guardò in alto mentre il tumulto soffocava scemando: il fusto dell’albero era troncato, privo di rami e di linfa vitale, rinsecchito da un parassita vorace e assassino.