R & P
La politica, nel compimento del proprio mandato, dovrebbe agire concretamente per il proprio territorio e cercare di risolvere i problemi, soprattutto dove il disagio rende la vita delle persone non dignitosa.
Questo semplice, ma allo stesso tempo complesso concetto, mette a nudo nient’altro che il fallimento di un fare politica dove vige una rigida e crescente mentalità mercantile o paternalistica che non riconosce i diritti e la loro dignità. Tutto ciò che non produce dev’essere escluso o rinchiuso a beneficio della società del consumo o dei privilegiati. A tal proposito viene spontaneo ricordare che l’identità è una questione sociale e ce la dà il riconoscimento degli altri indistintamente e senza pregiudizi. Non sicuramente l’indifferenza!
Volendo andare al nocciolo della questione, devo ricordare che nel territorio esistono realtà sociali, che nel bene e nel male e con risorse sempre più esigue, si occupano di disagio e disabilità da anni. Queste realtà, fatte di uomini e donne, cercano come meglio possono di dare conforto alla sofferenza di tante persone e, allo stesso tempo, un servizio che li possa sostenere ed accompagnare nel loro fragile percorso di vita. Non ci reputiamo assolutamente infallibili o non migliorabili, ma con scarpe di cartone e armi spuntate, in trincee esistenziali fangose, da decenni facciamo costantemente il massimo per i più disagiati. Questo in un vuoto istituzionale abissale, dove si registra un’amministrazione comunale inadempiente da sei mesi nel pagare i centri socio educativi per minori, e chissà quanti altri, e una Regione che ancora non si è pronunciata sul destino di tanti lavoratori delle strutture psichiatriche del territorio. Ci sono operatori, come me, che prendono a cuore queste situazioni e si battono costantemente ed ostinatamente per chiedere giustizia. Vorrei anche spiegare il perché, con tutta l’umiltà possibile, portando ad esempio un’esperienza vissuta che potrebbe sembrare banale ad occhi poco attenti e che non è conosciuta, perché lavoriamo nel silenzio e a servizio, nel termine più nobile, dei nostri cari amici (utenti come li chiamano gli altri). In questi giorni ho svolto un’uscita con alcuni pazienti, iniziativa che fa parte di tante altre, e abbiamo visitato il centro cittadino e alcuni locali dello stesso. Va specificato che i luoghi di vita sono “laboratori sociali” nei quali i pazienti possono sperimentare relazioni, anche se occasionali, dove possono rievocare ricordi e dove fare riaffiorare un sentimento di appartenenza che la società dei privilegiati e dei cosiddetti “normali” gli impedisce, perché li considera solo malati. Inutile sottolineare che i ragazzi (i pazienti per gli altri) hanno più che mai dimostrato di essere dotati di qualità umane che solo chi ha avuto una condizione di sofferenza, con la sua dignità e con la sua libertà ferita, può possedere.
Il pensiero, ammettendo che sto semplificando argomenti molto complessi, è quello che il mestiere della cura è essere disposti a maneggiare l’incertezza e la pazienza, con rispetto, vicinanza e ascolto; cosa che la politica, attenta ai numeri e non alle persone, ha dimostrato di non capire. Solo se in noi non viene meno questa arcana ricerca di una “comunione di cura e destino” avremo la capacità di uscire dalla nostra individualità e dal nostro egoismo che, in questi tempi, prevale in ogni ambito della vita sociale e istituzionale.
Nel campo della sofferenza, lasciare l’altro al suo destino, vuol significare abbandonarlo ad una deriva esistenziale… Una violenza di un totalitarismo che ci rende disumani e che la politica dovrebbe scongiurare con ogni mezzo.
La priorità, di chi lavora nel sociale, è mantenere vive queste realtà, queste esperienze e questi valori, ma il tempo non è nostro amico, ancor meno la politica, pur volendo ancora rimanere garantista. Si rischia di chiudere e sparire nel silenzio se non si interviene… Capitelo se non è chiaro!
Mi rendo conto che un articolo non può descrivere brevemente l’importanza di certi argomenti, ma sento ugualmente il bisogno di provarci e di non chiudermi nel silenzio che non è altro che complicità a un disastro di proporzioni epocali. Magari la domanda che dovreste porvi è: cosa c’è in questa società che non funziona e perché l’alienazione sociale è predominante? Rafforzare i servizi che si occupano di questo e non abbandonarli o farli chiudere… Potrebbe essere una probabile risposta e soluzione.
La salute non è una merce, ma è un diritto che non può sottostare a tempi e regole di mercato, di profitto o burocratiche, tutte cose che non guardano i bisogni reali delle persone. Il messaggio tempestivo che la politica dovrebbe dare è sicuramente quello di dare risposte certe ai tanti problemi, non soffermandosi solo alla propaganda. Tenendo bene a mente che investire nel sociale è allo stesso tempo curare la società e agire dove si origina la sofferenza e il disagio, quindi l’impegno inteso come responsabilità comune è imprescindibile.
Reggio Calabria, sabato 1° luglio 2023
Distinti saluti
Giuseppe Foti, operatore sociale