di Simona Ansani
LOCRI – “Kalavría” più di un docufilm, più di una storia raccontata, parlata, vissuta. “Kalavría” ha qualcosa di misterioso e profondo, di storico grazie alla sua Grecia e la nostra Magna Grecia. Qualcosa di architettonico, di paesaggistico, perché le bellezze da ammirare in quasi due ore di pellicola fanno scoprire una Calabria da scoprire ancora di più. Località che anche se viste, non sembrano mai state vissute, perché ormai tutto scorre velocemente e allora stare fermi, su una poltroncina, in un cinema, ci ha permesso di aprire gli occhi su una terra avvolta fra mito e realtà. “Kalavría” parla al cuore, tocca le note profonde dell’animo, affrontando la tematica dell’accoglienza, dell’essere profughi o dell’essere straniero di un mondo che di straniero non dovrebbe avere niente.
Scritto e diretto dalla regista Cristina Mantis, il docufilm fa tappa a Locri, presentato dal giornalista Enzo Romeo al Cinema Vittoria, insieme alla stessa Mantis e all’attore e Direttore Artistico del Centro Teatrale Meridionale Domenico Pantano, che nel film rappresenta se stesso nel racconto del teatro di Gioiosa Ionica, fulcro della Locride negli anni, ad oggi chiuso, e nel ruolo di Pitagora. Fra gli attori del docufilm Ivan Franek nel ruolo dell’uomo straniero, la maga Circe rappresentata da Agnese Ricchi, il musicista greco Alexandros Hahalis, la donna dei gabbiani e, in un accampamento di migranti, un griot dalla voce celestiale, Badara Seck, il giornalista Criaco che racconta il suo punto di vista dell’immigrazione e di quanto noi calabresi siamo più vicini all’oriente che non all’Occidente.
Abbiamo dunque visto una realtà alla quale noi probabilmente siamo quasi anestetizzati, e proprio grazie a “Kalavría” le nostre coscienze si possono svegliare per cambiare la Calabria.
Un docufilm ricco di pathos, per tornare al mondo greco. C’è sentimento e passione, inteso come movimento interno che ha perfettamente incastonato il progetto interpretativo e divulgativo. Le immagini si fondono con la fotografia, e la regia è perfetta nel suo intento di dare voce anche a chi non parla, come un monumento, o un animale, il falco, il pastore maremmano e le capre che corrono in mezzo al verde, il gatto fuori dalla porta, i gabbiani che volano liberi sopra un mare blu cibandosi di ciò che la signora da loro da quasi venti anni ogni giorno.
E noi, fermi, seduti su quella poltrona di un cinema dobbiamo guardare all’integrazione, dobbiamo essere integrazione, perché siamo tutti figli dello stesso mondo, senza confini, senza disuguaglianze, senza colore di pelle, siamo lontani seppur vicini anche di cultura. L’Africa non è mai stata così vicina e guai a dire “il mio mare”, ma “il nostro mare”.