di Francesco Tuccio*
CAULONIA – Un algido cielo fiabesco tornava a dicembre. Il paese fremeva schiarito al sole pallido e sbieco.
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Quei soli allontanavano i timori delle brume, delle grandinate, delle gelate, della sferza dei venti, delle torbide fiumare; la disperazione dei giardini d’arancio cesellati nelle culle di fondovalle, imperlati dalle rugiade tralucenti le speranze contadine agognate.
Sulla rupe giungevano i fiati del cosmo profondo. Un granello vivente pulsava nell’essere immenso e silente, e le luminarie dell’Immacolata volgevano vigorosi lingue di fiamme e crepitii di stelle verso l’ultima falce di luna, e sugli slarghi delle chiese baluginava un riverbero di legna ardente, trasudante linfe di terra per scacciare il male dalla terra. Il sacro fuoco pagano introduceva al Natale. Il Carro dell’Orsa e le figlie di Atlante giacevano immoti, sospesi nell’attesa della notte più lunga della cometa, e il paese diveniva un trepido formicaio incessante, riempiva i vicoli e le piazze e i sentieri scivolosi di campagna. I giovani lesti approntavano sui tavoli e i tavolacci, negli angoli delle case e dei “catoi”, il proscenio su cui andava in scena il racconto di se stessi e delle memorie che gli scorrevano dentro fin dalle origini antiche.
Il presepe dipanava il racconto della vita tra il cielo e la terra, come se Urano e Gea stessero attoniti all’avvento del nuovo Dio. Nell’arco degli arbusti di mirtillo le mandarine stavano appese come mondi siderali, e nello spazio la volta di carta di cemento raggrinzita mostrava gli spruzzi delle costellazioni, e l’umanità e la natura lievitavano in un moto trascendentale di speranza e di pace.
Le creste di collina, i poggi, i pianori e i declivi erano modellati con i tronchi di fichidindia e ricoperti di tenero muschio, verde e odoroso di grano e di pascolo. Alle falde dei versanti scorrevano incise le fiumare, i meandri incassati e divaganti, le gole, i salti e le pozze. L’acqua scorreva per essere attinta negli stagni, inseminare le zolle, dissetare gli uomini e gli animali, muovere i mulini del pane.
Le strade, i ponti e i muri a secco si diramavano come i pensieri inquieti che si rifuggono nell’imo delle pietre e scivolano sulla sabbia giallastra e rossiccia lasciando le orme leggere del loro passaggio. Tutto conduceva alla grotta di creta fresca, elevata come un’iride striata dai tanti colori, intiepidita dai soffi del bue e l’asinello sulla paglia ingiallita come fili d’oro germogliati dalle fatiche dell’uomo.
Dall’angolo alto, da cui s’apriva lo scenario, sorgeva il paese, un grappolo fitto di case, strette come un gregge impaurito al passare del tempo. Le finestre mostravano i lumi accesi per infondere l’anima a quella vita che si riuniva attorno al braciere, quando la tramontana sfrangiava violenta brividi di gelo. Più in basso le torri alte, il castello merlato coi i Re Magi in groppa ai cammelli o ai cavalli, evocavano le lontananze allucinate dei sud del globo, gremivano la fantasia e i sogni epici dei ragazzi e tenevano a distanza i popolani. Il nuovo Dio non aveva pronunciato ancora la parabola della crune dell’ago.
Le statuine d’argilla cotta avevano il volto dei pecorai che ricoveravano le greggi negli stazzi ai piedi della rupe e dalle caldaie annerite traevano le ricotte e il siero per ammollare il pane indurito dei poveri, degli ortolani che ruotavano attorno ai contrafforti, dei contadini con la falce lungo i pendii, dietro ai buoi al giogo, bianchi ed enormi come animali preistorici.
Le donne incarnavano la fierezza delle matriarche, portavano brocche e orci sulla testa, conficcavano la mano sinistra nel fianco per dare equilibrio al passo ondulante, coperto dalle sottane pieghettate fino alle caviglie scalze; qualcuna lavava i panni presso la fontana o il greto del torrente, li stendevano sulle fratte o sulle pietre di granito attondate, e qualche altra desiderosa d’essere madre con i panni ne fece un figlio per andare alla grotta e tornare con i vagiti in carne e ossa.
I mastri stavano nelle botteghe e nelle grotte. C’era l’arrotino e il vasaio. Chi batteva l’incudine e chi strusciava la pialla. Chi con il forno acceso infornava il pane e chi davanti alle botti zaffate vendeva il vino, mentre gli sfaccendati ballavano al suono dei pifferi e delle zampogne. L’asino paziente non mancava mai, spingeva affaticato le ruote del frantoio.
C’era perfino lo scemo del paese, “l’ammagatu da stida”. Non partecipava al viaggio e non portava nulla perché nulla aveva da portare, stava immoto nella scena e da essa si staccava precorrendo il divenire dei millenni. Guardava sbigottito all’eterno incanto della rivelazione della stella cometa. Aveva capito quel che soltanto gli umili possono capire: il mondo e la sua storia erano alla svolta di un grande cambiamento. E da questa intuizione derivava tutto il suo stupore.
*: la foto, fornita dall’autore, ritrae il paese di Caulonia nel 1957