di Francesco Tuccio
Percorse le gole e le forre primigenie inabissate nelle falde granitiche, compiuti i salti possenti e fragorosi frangendo l’acqua in schegge e vapori diamantini, e dopo essersi steso acquetato nelle culle di pozze profonde, l’Allaro s’invalla e pennella un’ansa che aggira la prominenza di un grande sperone di roccia, contornato dai pioppi e dagli oleandri che giungono affaticati messaggeri della marina lontana. Riempie di echi la valle con la sua voce sonora e incessante e ne modula i toni come suonasse una sinfonia nel susseguo delle stagioni e degli umori del tempo, fino a perdersi dileguando nell’azzurro del mare Ionico. Dagli argini arrampicano per i declivi montani vorticosi i fichidindia, le ginestre, i lecci e le querce, il regno ermetico dove saltellano giocosi i ghiri nell’intrico dei rami, e grufolano affamati i cinghiali alla ricerca delle tenerezze sotterra, e volteggiano sicuri gli uccelli migratori e stanziali. Nella valle gli uomini costruirono villaggi, casolari di pietra e mulini dalle macine poderose, dissodarono orti e vigneti ed eressero sprazzi di terrazzi cinti da muri a secco come altari votati alla fertilità della terra, ingravidata dalle acque prolifere della fiumara.
{loadposition articolointerno, rounded}
In cima allo sperone altri uomini, provenienti da lontananze sconosciute e ferventi nella missione di fede, costruirono una piccola cappella con una torretta, insediandovi un faro di vita ascetica nel culto di Sant’Ilarione Abate di Palestina che, morto a Pafo nel 371, ebbe ampia popolarità in epoca medievale. Sappiamo che il santo fu eremita in Sicilia ma non vi è traccia di un suo passaggio sull’Allaro. Sicuramente lo compirono e vi rimasero, incantati dalla solitudine, dalle bellezze naturali e dall’aria solenne, i discendenti spirituali di Esichio che di Ilarione fu discepolo, compagno inseparabile del continuo pellegrinare ed erede delle opere miracolose e della fama sparse nel mondo romano. I monaci romiti vestivano poveramente gli abiti ruvidi di “Iaceri Zegrini” che segnavano la pelle, vivevano in anguste celle claustrali dove facevano penitenza con rigore esemplare. Lavoravano, praticavano la questua ed ospitavano i viandanti e i rifugiati tra le asprezze e i pericoli dell’entroterra. Si resero utili e condivisero le ansie e i desideri dei poveri villaggi del luogo. Ancora visibile è la mastra di Pampamiti da loro costruita per l’irrigazione degli orti.
Nel corpo di fabbrica dell’eremo, più volte ampliato fino al 1723, è stato riscontrato un reimpiego di mattoni riferibili al modulo normanno; fatto che se non data con certezza le sue origini in epoca bizantina le rimanda contemporanee alla vocazione solitaria e contemplativa di Brunone da Colonia, a cui Ruggero d’Altavilla donò un territorio poco distante sulle Serre ricche di fitti boschi. Così l’Allaro frontiera a sud della chora cauloniatide con gli avamposti militari di Camillari, Caulonia centro, monte Gallo e i suoi reperti di età magnogreca. ritorna proscenio naturalistico delle espressioni più intime, elevate e rigorose della fede, nel passaggio epocale dal mondo pagano a quello cristiano già avvenuto. E ha da dare testimonianza anche sulle origini della diffusione del cristianesimo che ci pervenne dal mare come gli dei dell’antica civiltà ellenica. Nel XVI secolo, padre Giovanni Fiore da Cropani, storico che dimorò per un periodo nel convento dei cappuccini di Santa Maria di Primaluce (odierno cimitero di Caulonia centro), riferiva che i castelveterini ricevettero la fede e furono battezzati dall’apostolo Pietro. Questi approdò sulle nostre coste mentre navigava alla volta di Roma dove fu crocefisso, e alla sua partenza lasciò a Pietro Antochieno il compito di consolidare la nuova comunità dei fedeli. Vi successe San Policarpo di Smirne in onore del quale fu eretta una chiesa adiacente alla foce dell’Allaro, nel punto in cui si imbarcò per raggiungere altri lidi. Quella che appariva una leggenda oggi trova un riscontro storico incontrovertibile, anche se non sappiamo in che misura l’accredita. La chiesa di San Policarpo riemerge da un codice del 1398 che riferisce dell’approdo di quattro navi piratesche in prossimità della stessa (Agiou Polekarpo). I ruderi nei secoli successivi forse furono inghiottiti dall’avanzata dei flutti del mare, oppure andarono sotterrati dalle piene alluvionali dilaganti nella piccola piana di Aguglia. Le vestigia perdute rimandano comunque la diffusione del cristianesimo sul nostro territorio agli albori dell’anno mille, ne svelano la consistenza dei suoi abitatori e sempre l’Allaro ne diviene teatro fatale.
In epoca recente aprendo un botola stretta posta sul pavimento della chiesa dell’eremo si è scoperta una camera ipogea con sei “cantarelle”, sei sedili su cui venivano posti i corpi ad essiccare. Tra gli elementi di corredo che accompagnavano i defunti nella cripta è stata rinvenuta una medaglietta devozionale con l’effige di San Miguel del Milagro. Uno dei romiti proveniva dal lontano santuario del Messico e mostrava il legame dello sperduto eremo sull’Allaro con tutto il mondo della cristianità.