SIDERNO – Abbiamo passato l’estate ad ascoltare, durante i concerti, i brani destinati a far parte del loro secondo album. Abbiamo appreso, di nuovo, che “carma ci voli, e candalìa”; abbiamo ammirato le evoluzioni di una farfallina dei gelsomini “Jasmine butterfly”; abbiamo imparato subito il ritornello accattivante di “Cosmopolitana mama”; abbiamo ammirato le versioni di brani storici come “’Mpernu” arricchiti dalla tromba del grande musicista tedesco Ingolf Bukhart al festival jazz di Roccella. Ora non vediamo l’ora che esca il loro secondo lavoro discografico. Nel frattempo, facciamo una bella chiacchierata sul progetto Scialaruga in generale, sul loro leader Fabio Macagnino, architetto e musicista, sui fermenti musicali locridei.
Fabio, i tuoi studi di architettura quanto sono serviti nel tuo percorso musicale?
«Molto. Per fare il musicista ho studiato architettura. Mi è sempre piaciuta molto la Storia dell’Arte alla quale ho attinto per comprendere come le società hanno sintetizzato formalmente il “zeitgeist” dei vari momenti storici. Ad esempio è proprio dallo studio dell’architettura che ho veicolato il concetto di “regionalismo critico” che è un approccio all’architettura con il quale si cerca di favorire lo sviluppo di una cultura carica di identità, ma che mantenga aperti i contatti con il sapere e la tecnica universali. E’ ciò che ho cercato di trasferire nella mia musica».
Disegnaci il tuo progetto di Locride. Dal punto di vista urbanistico e non
«Quello che bisognerebbe subito fare è limitare drasticamente il consumo di suolo. Densificare, delimitare in modo netto i centri abitati dal suolo agricolo per limitare lo sprawl urbano pensando ad un riuso dell’esistente. Il discorso è lungo, ma inizierei da cose semplici, niente di eclatante, basterebbe cominciare dalla cura dei marciapiedi e da piccoli interventi puntuali e discreti negli spazi pubblici. Mi spavento quando ogni tanto sento parlare di “grande Locride”, o “la grande Gioiosa”. Invece curerei un po’ le facciate delle nostre case che oltre ad essere non finite sono tappezzate di cartelloni pubblicitari,i balconi “decorati” con improbabili colonnette col panciotto, tetti a falde inclinate come delle baite di montagna, ecc. Insomma farei cose piccole e discrete in modo che quando poi verrà il Grande Architetto Illuminato a progettare il Grande Piano della Grande Locride (pagato profumatamente), almeno troverà dei paesi curati dove si può passeggiare sui marciapiedi, andare in bicicletta e le facciate delle case più dignitose».
Passi per essere “l’antitarantella”, anche se all’inizio della tua carriera ne hai fatta parecchia. Noi ti conosciamo e sappiamo che non è così. Ma il festival di Caulonia ti piace così com’è o lo vorresti diverso?
«Non so se ho mai suonato veramente tarantella. Ad ascoltare i puristi, cioè quelli che si avvicinano il più possibile alla musica tramandata oralmente dai nostri anziani depositari della “vera tarantella”, direi che non l’ho mai suonata veramente. Ho sempre suonato un genere che ci siamo inventati con i Taran Khan e che è il genere che adesso va per la maggiore nella Locride. Io provenivo dal Rock e ho trasferito quell’energia esecutiva sulla mia cassa e tamburello. La cosa funzionava molto, l’abbiamo usata e mi sono divertito moltissimo in quegli anni. Successivamente ho continuato su quella strada mantenendo ciò che mi piaceva, aggiungendo elementi espressivi a me più vicini ma tralasciando il resto. Credo si possa definire un’evoluzione (non della tarantella visto che non l’ho mai veramente suonata) di un percorso soggettivo in cui confluiscono generi musicali più contemporanei. Ho cominciato a cercare dei “passe-partout” per creare un’atmosfera di convivialità senza accentuare la nostra “calabresità”, ma puntando su una sorta di “meta linguaggio”: questo ci ha permesso di fare concerti fuori regione e nessuno si è chiesto “da dove vengono?”. D’altronde, niente di nuovo, in altri paesi già si fa da molto tempo, solo in Calabria ci attacchiamo alla parola tradizione credendo che il nostro riscatto passi dalle radici. Per tutto quello che ho detto fin qui, qualcuno ha cominciato a far girare la voce che sono un rompi(c…)-antitarantella e io non faccio nulla per smentire questa voce anzi mi diverte. Del Festival mi piace soprattutto il “contorno”, l’atmosfera del paese, il buon cibo, lo sperone insomma il pre e il dopo festival. La proposta musicale negli ultimi anni è improntata alla ripetizione, praticamente niente di nuovo. Vorrei il Festival di Caulonia più propositivo; mi piacerebbe che ci fossero dei laboratori di ricerca (composizione, musica d’insieme ecc.) e che diventasse uno strumento per il rinnovamento culturale attraverso la musica. Invece da anni propone la stessa formula ed è diventato il principale divulgatore di un’immagine stereotipata della Calabria in cui non mi riconosco.Quest’anno l’edizione 2012 è stata un contenitore di pseudomeridionalismo bucolico, che ha puntato su un campanilismo condito di ‘nduja e rivendicazioni populiste, una manifestazione etnicoghettizzata. Insomma, si è delineata come una grande festa patronale con tanto di “comitato festa”. Nell’80% dei casi i musicisti invitati avevano già suonato diverse volte e delle nuove leve non parliamo ché ci vorrebbe un capitolo a parte».
E l’impegno politico dei quarantenni di oggi? E di quelli più giovani? Ci sono i margini per una rinascita civile e culturale o l’unica è andarsene?
«Non sono mai stato d’accordo con l’anti politica. E’ molto importante occuparsene. Ma anche in questo ambito bisogna secondo me pensare al futuro, senza farsi influenzare dalla generazione di politici che ci ha lasciato in eredità un modo di fare sostanzialmente appiattito su una mentalità localista-ndranghetista. Bisogna pensare ad una Calabria che s’inserisce in Europa, che si vuole inventare un futuro diverso. Non so quale futuro, ma diverso. Per far questo, bisogna restare e imparare a comunicare, io non l’ho saputo fare finora ma non è mai tardi per imparare».
Tu viaggi e hai contatti con realtà estere. Al di là del sound degli Scialaruga che è originale e cosmopolita, tu però esporti un’immagine anche un po’ stereotipata: la “candalia” ad esempio, non è proprio una caratteristica mittleeuropea. Dalla linea gotica in su non si va per nulla “chianu”…
«C’è una frase “british” che mi piace molto: “non buttare il bambino con l’acqua sporca”. Io ho potuto conoscere e studiare i lati positivi e negativi della cultura mediterranea e di quella mitteleuropea. Lo stile di vita “mediterraneo” è per me un baluardo all’efficientismo utilitarista nordeuropeo che ci sta lentamente trasformando in schiavi delle loro banche. La mia “Candalia” vuole opporsi a questo “sistema”. Ozio, lentezza e nostalgia contro un’economia ed uno stile di vita disumano e in ultima analisi violento, perché improntato al dominio del prossimo. Non parlo di pigrizia, ma di disobbedienza. Invece della cultura mitteleuropea apprezzo l’attenzione agli interessi pubblici. Lo spazio pubblico è sacro e tutti sanno di essere in prima persona responsabili dell’aspetto delle loro città, del funzionamento generale di ogni aspetto della vita collettiva. La giustizia sociale va di pari passo con la responsabilità individuale che si evidenzia inoltre in una cultura attenta ad istanze ecologiste. L’ultimo capitolo della mia tesi di dottorato (titolo preso in prestito dal Prof. M. Fabbri) si intitola: “Per un Bauhaus Mediterraneo”. Credo che nell’unione di queste due culture che normalmente sono viste come antitetiche, ci sono utili spunti di riflessione. La cosiddetta “altra Germania”, ha simbolicamente affidato ad un architetto italiano la progettazione della Potsdamer Platz di Berlino (Renzo Piano), proprio perché c’è una Germania che guarda a Sud e al suo stile di vita per “stemperare” la teutonica serietà in vista di una Germania europea e non di un Europa germanica. C’è bisogno di dialogo. Sicuramente non mi accoderò mai a chi retoricamente si riempie la bocca con le parole “sud, meridione ecc…” per sostanzialmente lasciare le cose come stanno. Quindi: “chjianu”, con “carma”, ma progrediamo».
Parliamo di musica, va’. Pare che nel secondo album ci sia un bel po’ di psichedelia. Nostalgia dei gruppi ascoltati in età puberale o necessità di ampliare gli orizzonti musicali?
«Non ho mai smesso di farmi influenzare da tutto quello che ho ascoltato fin da ragazzino. Le atmosfere psichedeliche che hai potuto percepire però fanno più riferimento al lato del mio carattere nordico-contemplativo e alla volontà di evidenziare un aspetto secondo me tralasciato nella musica e nella poesia calabrese e cioè il lato più lirico e malinconico. Forse una mia visione della “Candalia”. Certamente è un passo in avanti rispetto al primo album in cui ancora mi preoccupavo di mantenere certe sonorità che rimandassero in qualche modo al nostro territorio. Nel nostro secondo album questa preoccupazione è sparita completamente. Credo di aver assorbito certe atmosfere e ormai le lascio alle spalle come dato acquisito sentendomi completamente libero di metterci dentro tutti i suoni che fanno parte della mia personale storia. E mentre do ampia libertà a tutta la mia memoria musicale, penso sempre ad una una frase che Raiz ha pronunciato qualche anno fa durante il suo concerto al Festival di Caulonia : “…se mi tagliate le vene ne viene fuori la tammurriata…”».
Stai partendo per un viaggio nella “tua” Germania. Com’è la risposta del pubblico tedesco ai vostri concerti?
«In Germania ho avviato da tempo collaborazioni che abbracciano altri campi di mio interesse che vanno oltre la musica. Non vi ho ancora eseguito concerti ScialaRuga anche se i nostri cd girano in quel paese e mi arriva un ottimo feed-back. Non mancherò di tenerti informato nei prossimi mesi sulla risposta del pubblico tedesco. Abbiamo però spesso suonato fuori regione e devo dire che in genere la risposta è stata positiva».
Chi fa buona musica da noi è adeguatamente apprezzato e valorizzato?
«Se non lo è la colpa è nostra, dei musicisti. Sono abituato a prendermi le responsabilità in prima persona e non a scaricarle sugli altri, sulla gente, le amministrazioni, la società, la politica ecc… Sono convinto che se non siamo apprezzati e valorizzati è perché non sappiamo comunicare. Bisogna imparare a comunicare! Alcuni musicisti sembrano offesi perché non viene dato abbastanza spazio alla “buona musica”. E chi ce lo dovrebbe dare lo spazio? E chi decide qual è la buona musica. La politica? ‘A ggenti? Sinceramente io non me ne preoccupo. Io lotto per i miei valori, i miei ideali. Rompo le scatole e non mi faccio gli affari miei (come qualcuno m’invita continuamente a fare), in qualità di cittadino, di calabrese, ma non in quanto musicista. Lotto perché non mi sento rappresentato da questa Calabria bucolica e ‘ndujista che certa musica sta divulgando. Ma non posso imporre la mia musica. Non posso dire “la mia musica è bella ascoltatela”! Bisogna accettare il fatto che certa musica piace solo ad una minoranza e continuare sulla propria strada e (mi ripeto)…imparare a comunicare».
Cosa non sopporti tra “li cosi chi cangianu sempi e chidi chi non cangianui mai”?
«Non sopporto le persone che non sanno fare scelte radicali per portarle avanti con serietà e impegno, che non sanno o non vogliono lottare per ideali e valori ma “cangianu sempi“ opinioni. Sono come delle banderuole. Non dico che non si può cambiare idea, ma mai per opportunismo. Non sopporto questo fatalismo stagnante che permea la nostra mentalità che vorrebbe convincerci che è inutile…tanto…le cose non cambieranno mai… mai …».
GIANLUCA ALBANESE
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