di Francesco Tuccio
CAULONIA – Tra gli infiniti documenti passati alla storia ve ne uno a cui gli studiosi hanno attribuito il nome di “Dichiarazione di Castelvetere” (odierna Caulonia). Ma chi ne fu l’autore e in quali circostanze la rese? Il 6 settembre del 1599, nella cheta spossatezza della caligine estiva densa del canto aspro delle cicale che risaliva sciamando dalle prominenze, dalle pieghe e dagli squarci vallivi, uno schianto, un sobbalzo, una lingua di fuoco serpeggiò balenante tra gli impervi e dirupati vicoli pregni del lezzo di strame e lettiere frammisto ai bollori del mosto della recente pigiatura, mentre le vespe ebbre e ignare s’addentravano nel buio delle basse spelonche.
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Invase i tuguri e le povere case, risalì le trombe marmoree delle scale dei palazzi ed avvolse gli altari scuotendone i fregi sacri ed i candelabri. Dalla Matrice partì un suono di campane in festa a cui si unì in coro la miriadi dei campanili delle altre chiese per levare a Dio solenne la prece del ringraziamento per il grave pericolo scampato. I birri del marchese Fabrizio Carafa avevano varcato porta Reale (oggi Sant’Antonio) e menavano incatenato il capo della congiura tradita per la via principale della città. Squillava forte il monito per i malcontenti stritolati nella morsa di un potere degenere, e “non vi fu donna, né uomo che non sia accorso a vedere coi propri occhi chi il monaco spogliato, chi il filosofo, chi l’eretico, e tutti il reo di lesa maestà” (Davide Prota, Ricerche storiche su Caulonia). E proprio chi vide in lui il dotto filosofo portatore di una nuova era ed ebbe conciliaboli segreti nei due giorni che, nel luglio precedente, dimorò in Castelvetere si sentì vacillare strozzato dal terrore di essere scoperto e si diede alla campagna infestata dai banditi.
Il congiurato era giovane, aveva appena compiuto 31 anni e la sua fama infondeva paura, tanta paura nei suoi carcerieri che l’avevano portato lassù, rinchiuso dietro le mura e i bastioni del castello inespugnabile, elevato sulla rupe vorticosa a vedetta dell’intero circolo dell’orizzonte sperso nell’azzurro vaporoso, avvolgente dal mare alla montagna. Il tradimento aveva svelato le sue deboli trame, il tradimento l’aveva consegnato inerme nelle mani dei suoi potenti nemici, tronfi di boriosa alterigia e cinica magniloquenza. Solo il tradimento poteva fermare il figlio dello “scarparo” poverissimo e analfabeta, il genio eccelso troppo precoce, la coscienza fustigatrice troppo audace e immersa nei mali del “secolo del grande sfarzo esteriore e del vuoto interiore” (Pasquino Crupi, Conversazioni di letteratura calabrese dalle origini ai nostri dì). La sua terra gli aveva rivelato le piaghe antiche e contemporanee inferte dal rapace e sordido potere feudale, dell’oppressione spagnola, dei conflitti incessanti e non di rado cruenti tra i nobili, della pletora di preti e monaci oziosi e profittatori, dalle scorrerie turchesche, dalle carestie ricorrenti, dalle pestilenze e dai terremoti. Gli studi febbrili alla luce del sole e nelle veglie al lume della lucerna inquietarono il suo animo insofferente agli stantii schemi autoritari. Non ancora ventenne gliel’avevano predetto: “tu non farai bon fine”. E lui, sordo, incurante, sitibondo di conoscenza, percorse le vie proibite oltre le imposizioni immobili e sterili degli aristotelici, degli scolastici, delle tenebre ecclesiali. Trovò nuove verità e fu fecondo dei germogli del pensiero moderno. Sognò l’avvento imminente di un’età libera, naturalistica, spontanea, fraterna, senza costrizioni ed ipocrisie e ciò fu la sua rovina..
Partì alla ricerca dei nuovi fermenti culturali del tempo, li incontrò laddove fiorirono nell’Italia divisa, e vi tornò dopo dieci anni costretto all’esilio, all’isolamento e al silenzio. Tornò percosso, umiliato, perseguitato ed indomito.
Dalla stessa sera del dì dell’arresto e nei giorni a seguire, gli armati pullularono in ogni dove nella città resa deserta dalla nota ferocia degli spagnoli, atterriti dallo spettro dei segni cosmici premonitori del mutamento epocale e della rivolta immane, della quale non avevano cognizione del numero e della ramificazione dei congiurati. L’attesa schiacciava il grumo delle case aggrappate attorno ai palazzi e alle chiese. Barrate erano le porte e le finestre di legno scarnato, vuote le strade e le piazze, la vita contratta in un respiro flebile e silente, le orecchie tese ad ogni infimo cenno, e nelle segrete fetide e buie del castello un grande uomo si arrovellava angosciato sotto l’occhio torvo dei carcerieri. Sapeva di dover affrontare un processo, un altro ancora ed ancor più grave. L’accusa di lesa maestà, quando l’investitura proveniva direttamente da Dio, poteva facilmente sconfinare nell’eresia. La violenza contro il re diveniva violenza contro Dio. Allora lo spazio angusto della cella s’illuminò delle fiamme ardenti del rogo e fu colto dalla debolezza umana rendendo la dichiarazione che segue (tratta da La Congiura di Calabria di Luigi Firpo):
Dichiarazione di Castelvetere (Caulonia, 10 settembre 1599)
Io, fra Tomase Campanella del ordine de santo Dominico, della terra de Stilo de Calabria ultra, faccio manifesto a chi spetterà vedere questo, come io, sendo stato nella religione de santo Dominico per anni quindici, ho atteso a diverse professioni de scienza, e in particulare alla profezia, tanto raccommandata da santo Paulo alli Corinti: “potestis omnes prophetare“; e per questo mi dilettai di quelle cose che donano indizio del futuro, secondo che Domine Dio l’ha poste per segni delle cose del mondo. Pertanto, avendo considerato per l’istorie vecchie quel ch’avea ad essere nel regno de Napoli, che fu sempre de revoluzione ed ebbe principio, mezzo e fine in brieve sotto diverse fameglie, m’entrò in pensiero che dovesse patire presto mutazione, tanto piú che, parlando alli popoli, li vedea lamentarsi delli ministri del Regno de molte cose che se diranno a suo tempo; dopo, ragionando con diversi astrologi (in particulare con Giulio Cortese napolitano, con Col’Antonio
Stigliola, gran matematico, e con Giovan Paulo Vernaleone, che stavano in Napoli or son tre anni), ho inteso da loro che ci doveva esser mutazione di Stato; e di piú, l’efemeridi di Cipriano Leovizio per li gran eclissi, che cominciaro da due anni in qua e ch’hanno d’essere sin alli 1605, mostrano gran novità, sendo che le mutazioni nelle cose magne significano quelle che seranno fra gli uomini; de piú, uno astrologo, domino Arquato ongaro, ha predetto molte cose del imperio turchesco e cristiano, e molte sin a questo tempo si veggono riuscite; però me imaginai per scienza conietturale che sarà così. Ma de piú, sendo stato questo anno grandi inondazioni in Roma e Lombardia e gran terremoti in Sicilia e in Calabria, io predicai in Stilo, secondo l’Evangelio, che queste cose significano mutamento nelle cose umane, e m’era apparecchiato a mostrarlo per dottrina de santo Tomase e d’altri buoni dottori. Pertanto io, sollicitato da molti amici di voler dire il parer mio, ho predicato e detto che seranno mutazioni; e particolarmente la settimana santa di questo anno ’99 furo in Stilo, patria mia, inondazioni piú ch’ordinarie, e se disse che si vedde una scala negra sopra la quale ci era uno cipresso, e questo m’ha riferito Giulio Contestabile e Giovan Iacopo di Costanza; di piú, il capitan
Plotino fece leggere alcune profezie dell’Abbate Idrontino, le quale mostravano mutazione in Sicilia e Toscana e Calabria, e me le mandò a vedere: e io disse che ponno essere vere, perché l’altri astrologi e savi predicono il medesimo.
Or, ritrovandosi in Stilo nemicizia tra li Carnelevali e Contestabili, io fui adoperato del auditor David per instrumento della pace, e con questa occasione praticai strettamente con li Contestabili, e un giorno Girolamo de Francisco, cognato de Giulio Contestabile, me venne a dire s’è vero che ci serà mutazione, sí come io predicai il dí della purificazione della Madonna, e io disse che cosí pensano; esso mi rispose che non avea speranza in altro ch’in questo perché avea speso tre mila docati de denari e la robba sua, e stava carcerato per Stilo, e tutto il tempo della vita sua fu travagliato; e dopo mi venne a parlare piú volte di questo, e io respondevo che serà quel che Dio vuole; e me disse esso Geronimo, ch’io non dicesse queste cose a Giulio Contestabile suo cognato, perch’era infidele amico, ma che al tempo del negozio averia fatto assai, perché era testa sagace e astuta; io resposi che queste cose non tengo conto di dirle o no. Finalmente, essendo venuto Marco Antonio Contestabile, contumace di Stilo, frate d’esso Giulio, per ratificar la pleggeria della pace con li Carnelevali, Giulio veniva al convento, dove era per sicurtà Marc’Antonio con Giovan Tomase
Cascia bandito de Squillace, e piú volte parlando me venne a dire male delli officiali regi e in particulare del capitano e de tutti Spagnoli; e mostrando desiderio di vederli stirpati, perch’aveano
posto il patre in pregione e tenuto della parte de’ Carnelevali, io lo confortava a pacienza, dicendo che Dio ci provederà, si ha patito ingiustamente; finalmente me disse un giorno, vedendo l’imagine del re Filippo terzo dentro la mia camera: – Me dispiace, ch’è morto il re e non vennero Turchi o Franzesi a pigliare questo Regno! – Io disse: – Tu adunque pensi a cose nove! – E perché l’amicizia se stringeva, un dí, stando collerico, pigliò l’imagine del re e se la pose sotto li piedi, dicendo: – Guarda a chi stamo suggetti! al re delli uccelli! – dicendo ch’era figliolo e sbarbato e di poco governo; e qui vi era presente fra Dominico Petrolo, e noi admirati dicemmo: – Che te ha fatto questa imagine? Ti potrebbe nuocere e non giovare questo atto! -; esso Giulio rispose: – Quel che si fa in presenzia d’amici non nuoce mai! – e disse che tacessemo. Io, fra Tomase, repigliai questa imagine un poco macchiata e la posi con ostia dove era prima, con l’altre imagine; e dopo esso Giulio
se pigliò un’altra imagine del re e una del Transilvano e una del Gran Turco, ch’erano affisse in camera mia, e se le portò a casa; di piú, dicendo io che serà mutazione, esso me respose: – Volesselo Dio, ché noi ci averebbemo gran parte! -; io le disse: – Come? -; esso me mostrò Marc’Antonio suo frate, dicendo ch’aveva compagni e amici assai, banditi e di piazza, e parenti; io disse: – Questi non ponno fare cosa alcuna, perché non se ponno opporre a potenza grande, ma però respose io – è bene aver amici assai, perché, si il re averà guerra, la pòi tenere con chi vince -; esso rispose che piú volte fu disposto d’andare in Turchia e che con li Turchi se aiutarebbe; ma io, vedendo che parlava irato, mi burlavo. Di piú, un giorno, avendo parlato io, che la terra nostra non avea bisogno de presidio, perch’il principe de Squillace la giudicò cosí, non potendo venire a Stilo esercito de Turchi, perché tutti li passi sono stretti, e non potendo venire pochi, perché sono lontano de’ mari e sarebbono vinti nelli passi, esso Giulio e Geronimo, stando noi nella tempa ditta Lanzari a canto al monasterio de santo Dominico, dissero che, se noi ci potessemo tenere, essi lo farebbeno per stare senza il governo spagnuolo. Io disse che ci voleva assai gente e vitovaglia; essi resposero che Marc’Antonio avea per amico il figlio de Nino Martino con molti altri della piana, e che li Grassi,
che portano cinquanta compagni, aveano con loro, ché li son parenti, e a Mesiano, donde è la matre de Giulio, ci erano assai parenti loro, òmini potenti. Finalmente io sempre disse che, se questo ha d’essere, Dio trovarà il modo; e me ricordo ancora che Giulio me narrò che, l’anno avanti ch’io venessi a Stilo, esso avea fatto un trattato con certi soldati de rebellarse, perch’il re non li pagava,
e aveano posto il nome tra loro agli officiali, e mostrava esso con Geronimo gran voglia di questo mutamento. De piú, io ho parlato di questa mutazione futura con piú uomini di Stilo, in particulare con Giovan Iacobo Sabinis e Giovan Paulo Carnelevari e con Marcello Dolce per modo di discorso, e altri lo aveano a gusto e altri non; ma con fra Dionigio Ponzio e con fra Giovan Battista de Pizzone spesso ne parlavamo, ed essi mostravano aver a caro questo. Con Maurizio de Rinaldis io parlai una sera, che venne in monasterio per farsi vedere da Marc’Antonio Contestabile, acciò li
Contestabili sapessero che li Carnelevari ancora hanno gente armata e non hanno paura; e ‘l Maurizio me parlò s’io avea trattato con il capitaneo de Stilo per la sua libertà; e avendo detto il modo, che non se poteva manco accordare che per cento docati: – Io – rispose Maurizio – non mi curo -; e disse: – La scoppetta e questi compagni mi faranno libero -; e me dimandò s’era vero ch’avea detto a Giovan Iacopo che serà mutazione; io resposi che cosí avea predicato io per alcune raggioni veresimile; Maurizio me disse: Prega Dio che sia cosí !’averemo amici assai -, e poi se partí da me, avendole detto io che tutte le cose Dio l’ha dato agli uomini savi e da bene, e se esso fosse tale averebbe bene, e se non, male. Dopo venne altre volte Maurizio in Stilo alla casa de Giovan Paulo Carnelevari e de Giovan Iacobo Sabinis, e me fece chiamare, e dissemi:- De qual parte sete voi, o fra Tomase, se ci serà guerra? -; io respose: – Di quella ch’aiuta Dio -, narrandoci che manda Dio le guerre, o per mutare lo Stato, o per fare che quel che regna diventi megliore, avendo visto il pericolo, e poi governi piú bene; però, o che re Filippo sia re, o altro cristiano prencipe, sempre chi tiene piú amici diventa grande; e le disse l’esempio in questo regno d’Italia de Iacomo Caldora, de Nicolò Peccenino e de Braccio Fortebracciis e de Francisco Sforza, che da bassi uomini, per la sequela, a tempo delli re passati, diventaro signori; ma chi siegue la causa giusta non si deve curare di patire, ch’alla fine serà esaltato, come David, e l’ingiusto rovinato, come Marco Sciarra e altri simili. Di piú, con quanti modi ho potuto l’animai al bene, per averlo visto cosí pronto e audace; esso Maurizio poi mi richiese ch’io lo tenesse in convento, e io non l’ho voluto fare; e fra questo tempo me n’andai ad Arena, chiamato dal signor Marchese per una lettera sua, dove stetti quindici giorni, e me venne a visitare fra Giovan Battista Cortese de Piczoni con Claudio Crispo, e pregato ch’io andasse a Piczoni, ché l’averiano avuto in favore grande, e cosí ci andai, mosso da paura che certi nemici della casa mia, Colella e Giovanello de Gioia, m’aspettavano per ammazzare mio fratello, che era con me; e dopoi in Piczoni ragionai con loro, e avendo visto che fra Giovan Battista tenea un libro della fabrica dell’astrolabia e che parlava de cose future, richiesto da loro, disse della mutazione che si aspettava, secondo fra Giovan Battista avea detto a loro; e Claudio vantandosi d’avere amici se fosse bisogno de fare guerra, io le dissi che sarebbe bene averne assai, perché sempre giova, e che li príncipi e re tengono conto di coloro i quali han piú amici, e sempre vi serviranno; e cosí le disse quel che avea detto a Maurizio, il qual ancora era amico di Claudio, e conobbi con ognun che parlavo, che tutti erano disposti a mutazione, e per strada ogni villano sentiva lamentarsi: per questo io piú andava credendo questo avere da essere. E mentre io era in Arena mi venne lettera da Giulio Contestabile di Stilo, che Maurizio era andato sopra le galere de’ Turchi de Amurat Rais, e che se pensava che Maurizio avesse fatto quel ch’esso un’altra volta volea fare, e ritornato a Stilo mi stimulò ch’io spiasse questo; io dimandai a Giovan Gregorio Presinaci, amico e compare di Maurizio, e a Giovan Iacopo Sabinis, e mi risposero ch’era vero questo di Maurizio, ma non me vollero dire, forsi perché non sapeano o tacevano, quel ch’era fatto; e spesso me diceano ch’io dico ogni cosa; io respose che lo saperò. Finalmente venne Maurizio a Stilo, mentr’io era in Stignano, e mi lasciò una lettera, che li facesse favore d’andare a Davoli per cose importante e che li portasse nova del suo accordio col capitano; io non volea andare, perch’avea da essere in Santo Dominico de Suriano, ma poi, considerando ch’avea d’andare a Santa Caterina, sí come aveamo promesso all’arciprete e a don Iacobo fratello del governatore e ad altri gentiluomini e fratri amici miei, mi risolsi scorrere sino a Davoli, dove trovai Maurizio in casa de don Marc’Antonio Pittella: e andai con fra Dominico Petrolo e con Fabrizio Campanella; e qui Maurizio me disse che io non avea migliore amico di lui, e ch’esso avea trattato con Amurat sopra le galere che venisse l’armata del Turco, ché esso voleva pigliare e Catanzaro e la provincia; io le disse ch’avea fatto assai male, perché questi sono infedeli e nemici, e non si può fidare, e mi admirai che questo negozio fosse andato tanto avante per man sua; esso respose ch’avea capitulato con li Turchi, che non avessero essi a tener dominio in Calabria, ma solum assistere nel mare per fare paura a chi lo contrastasse, e che li Turchi voleano solo il traffico in questo Regno e non altro; io mi stupí, perch’esso mi mostrò una scrittura d’Amurat scritta in lingua e lettera turchesca, che non la seppi leggere, e le disse: – Guàrdati, Maurizio, perché li Turchi non osservano fede, e dicono che ci lasciano liberi per intromettersi loro qui prima, e sempre giurano il falso, come fece Mustafà al Bragadino quando prese Cipro-; e altri esempi gli addussi, e mi lamentai di questo atto suo, senza raggione fatto e senza religione, e de quel ora mi determinai lasciare la sua amicizia. E mentre stavamo cosí, Maurizio avea mandato per certi gentiluomini di Catanzaro, quali fòro Giovan Tomase di Franza e Paulo di Corduba e un altro non mi ricorda il nome; e questi doi, il Franza e Corduba, mi dimandaro segreti per aver donne; io mi burlai e le disse che queste son vanità e che per via de Dio non se ponno fare e per via del Diavolo sono ingannati, ché li portano un diavolo in forma de femina; e Maurizio mi pregò che io dicessi s’era vero quel che esso avea predetto a quelli gentiluomini, perché me aveano gran credito; io disse ut supra, che Dio poteva mutar il mondo, e vedendomi corso io con altri e con Maurizio a questo raggionamento, non ho potuto far de non confirmarlo, ma però me sono partito per disgusto, si bene tutti mi si offersero ch’io volesse essere capo e predicare, me averiano sequitato; e Maurizio voleva ch’io restassi con lui, e non ho voluto farlo. Venni a Santa Caterina e stetti tre dí a spasso, e pregai il guardiano delli Capuccini che facessero pregare Iddio secondo l’intenzione mia; e cosí venni a Stilo, e fra Dionigi me disse ch’avea dato bastonate a un frate, e me venne a trovare, ch’andava ad Oppido e che temeva del Visitatore, e io lo feci tornare a conciare le cose sue; ed esso, avendosi visto condemnato in galera tre anni, privato dell’abito e di lettorato, secondo ch’avea comunicato con Maurizio, cominciò in Catanzaro a predicare rebellione secondo la profezia mia, e per aver molti della sua parte predicò
ch’in questa congiura ci era il Papa, il cardinal San Giorgi, il vescovo di Melito e de Nicastro, e don Lelio Ursino, e li signori del Tufo, e tutti quelli ch’esso s’imaginò essere amici miei e suoi; e io giuro in verità che mai non ho parlato di queste cose e me pensai che per mezzo nostro se avessero a muovere, ma il fra Dionigi se ne venne per fare uscire a me e a fra Dominico in campagna con lui e con Maurizio, e me pose fretta e paura, e io non ho voluto fare questo, ma mi sono apartato in Stignano; e fra Dionisio se partí, o per imbarcar, o per trovare compagni, e me dimandò lettera a Claudio Crispo, e io non l’ho voluto fare, e me disse che serà la mia ruina, ma io non poteva credere tante cose, perché mi pensava che fra Dionisio cosí [dicesse] per fare paura a noi acciò uscessimo in campagna; anzi, io voleva scrivere una lettera all’auditor David, dicendoli che mi fu riferito ch’io fui nominato in una congiura, ch’io non so questo, ma che per quanto so io come servo di Sua Maestà venni in Catanzaro a dirlo; e fra Dionigio mi sconsigliò, e fece tanto che mi apartai; e quando mio patre intese tal nova, cominciò a piangere e reprenderme, stupendosi di questo.Maurizio me scrisse due volte da Stilo ch’io andasse a Stilo, ch’esso mi salvarà, e io, sendo scandalizzato del suo trattare, non ci andai; e mentre stavo mangiando in Santa Maria de Titi mi venne a trovare, e io non mi fermai, ed esso me sequitò dicendo: – Ferma, ferma! -, e io non l’ho voluto fare, dicendo mio patre che meglio mi vole morto, che uscire in campagna come ribello con ribelli.
Finalmente me posi in mano de Giovan Antonio de Mesuraco, il quale promesse salvarmi in mare, e me nutricò tre giorni, e dopoi mi diede in mano della Corte; e questo so io del negozio della
congiura, dove giuro che non mai ho pensato che le parole della predica mia, nella quale [era] anco l’auditor David, dovesse muovere tanta gente; ma perché gli uomini sono disposti, o per mal patenza della Corte, o per debiti, o per altre persecuzioni, le cose sono andate tanto inanti, e l’inondazione e terremoti prossimi furon buona causa.
Che abbino d’esser mutazione nel mondo io mi ricordo aver parlato col cardinal de Monte mentre se preparava la guerra de Ferrara, e che la Chiesa dovesse gir avante, e con un filosofo spagnolo zoppo, che sta in Roma, né me ricorda il nome, che fa professione d’arte devinatorie, e con il teologo del cardinal Farnese, ma non propiamente di questo Regno, né per modo prattico, ma speculativo. E ‘l prencipe di Bisignano, vedendolo io che desiderava questo, quelli giorni avante aveane parlato con Giulio Cortese, e però le disse: – Sta’ allegro, ché li astrologi aspettano mutazione e la mutazione fa per li uomini malcontenti. – Ma non però l’ho detto queste cose particulare, ch’il tempo e l’occasione
m’ha fatto dire qui; e quel ch’è di resoluzione per il bene e per il male, per il vero e per il falso, per il principio e fine delle cose umane se dirà con li debiti modi a Sua Maestà Catolica, quando non disprezzarà udire quello che Dio manda al mondo per il bene commune; e io tutta questa causa, con altre maggiori secondo le cause principali, la serbo a Sua Maestà, la quale può fare e sfare, conciare e guastare, perch’alli officiali bassi non lece se non quanto l’è imposto e non ponno provedere alla salute commune, alla quale io guardo, per la quale voglio morire.
Il resto di questo negozio presente tocca a fra Dionigi dire come è stato, il quale l’ha trattato con fatti, ch’io non con altro che con parole, ut supra. Maurizio, quando fummo in Davoli, disse che volea far un giro e trovar Giovan Battista Soldano, Giulio Soldanero e Carlo Bravo, e trovare li foragiti di Reggio e li baroni e altri, e ch’esso poteva fare in dieci giorni ducento uomini, e certi di casa dello Stocco in Cosenza, ed entrar in Catanzaro, e pigliar la città, e tenerla, ma non disse quando stava per farlo: questo è quanto so e me ricordo.
Io, fra Tomase Campanella, ho scritto e sottoscritto de mia mano in presenzia del advocato fiscale.
Quello altro, che venne con quelli di Catanzaro, me ricordo per le parole de Vostra Signoria che era Orazio Arania.
Io, fra Tomase Campanella.