di Francesca Cusumano
COSENZA – Viaggiare in tre diversi continenti per nove lunghi mesi in uno dei periodi storici più tormentati dei nostri tempi.
E’ proprio quello che ha fatto Giammarco Sicuro, inviato speciale della redazione Esteri del Tg2, nell’anno bollato come “Coronavirus”, quando trovandosi dall’altra parte del pianeta, comincia il suo viaggio intorno al mondo, documentando i momenti più drammatici della diffusione del virus, dai primi casi in Perù e poi Spagna, Corea del Sud ed ancora Messico e Brasile.
Il cronista nel febbraio 2020 si trovava in Perù, in vacanza, quando il governo italiano dinanzi la minaccia sempre più incombente della pandemia, decreta il lockdown generale, con l’inevitabile chiusura delle frontiere e il blocco dei voli.
Ed è dal Perù che Giammarco Sicuro comincerà il suo emozionante diario di viaggio intorno al mondo, attraverso le pagine de “L’anno dell’alpaca”, edito da Gemma Edizioni.
Un diario il cui nome trae origine dall’animale simbolo del Perù, l’alpaca, un souvenir che accompagnerà Giammarco Sicuro nella sua lunga avventura, insieme anche ad un altro peluche, un lama, ai quali darà i nomi di Isabela ed Esmeralda.
Un racconto che non segue un ordine cronologico, perché l’intento di Giammarco Sicuro è ricostruire quei nove lunghi mesi secondo un personale filtro dei ricordi e delle emozioni.
Proprio ieri, la nostra testata lo ha incontrato in occasione della presentazione del suo libro, accompagnato dall’editor Tamara Baris, in un noto locale di Cosenza.
Un a tu per tu, nel quale è emerso fin dalle prime battute della nostra intervista, l’amore del giornalista verso la sua professione, a favore di un modo di fare cronaca semplice, diretto, arrivando al cuore della gente con uno stile “narrativo” rassicurante, senza caricare di ulteriore pathos o drammaticità, fatti di per sè tali, quando bastano già solo le immagini per raccontarli.
Febbraio 2020. Giammarco, “L’anno dell’alpaca” è il racconto del tuo lungo viaggio, in tre diversi continenti, per nove mesi, in cui rappresenti i momenti più drammatici della pandemia ma anche usi, costumi e cultura di popoli lontani, un’esplorazione continua dell’umanità. Un libro che, tieni a specificare, non è “sulla pandemia” ma che ruota attorno a un mondo pandemico dove ad emergere sono le storie di piccoli eroismi…
Ci tengo sempre a sottolineare che non è un libro sulla pandemia ma è un libro che racconta la vita di persone, di popoli lontani durante la pandemia, anzi, durante la prima fase della pandemia, quando non c’erano i vaccini, quando non sapevamo cosa sarebbe successo l’indomani, quando questo virus arrivava e le città chiudevano. E siccome in Italia, in quel periodo lunghissimo, nel quale non si poteva viaggiare perché le frontiere erano chiuse e la gente era chiusa in casa, non si è saputo nulla di come gli altri affrontavano questa tragedia, mentre io avendo invece l’opportunità di viaggiare prima per vacanza, vacanza che poi dai tratti avventurosi e rocamboleschi, diventa lavoro, spostandomi attraverso tre continenti, quando tutti gli altri erano fermi, ho pensato potesse essere di interesse raccontare come tanta gente normale o importante o professionisti quali medici e infermieri, hanno affrontato questo dramma che ci coinvolgeva tutti. Quindi, c’è uno spaccato umano che arriva da tante parti del mondo.
L’anno dell’alpaca è “un diario irripetibile” nato dalla tua passione di raccontare il mondo. E’ proprio da questo che nasce l’idea di mettere nero su bianco, una fase storica così delicata, un qualcosa, come tu stesso l’hai definito, di “irripetibile”, “paradossale” e di “quasi unico”, mentre la maggior parte della popolazione mondiale si è trovata costretta a chiudersi in casa?
Lo definisco irrepetibile non per vantarmene ma perché semplicemente è un dato di fatto, anche perché spero non si ripeti più una situazione simile, non abbiamo ancora metabolizzato, riflettuto a fondo su quello che abbiamo vissuto ma effettivamente se ci fermassimo a riflettere e questo libro ci dà l’opportunità di farlo, su quel che è passato tra i mesi di marzo e aprile 2020, ci renderemmo conto che abbiamo vissuto qualcosa, per l’appunto di “irrepetibile”. E proprio per questa sua caratteristica di quel periodo, in tanti hanno cominciato a scrivermi, mentre io svolgevo la mia attività di inviato speciale per la Rai, sul perché non raccontassi in maniera più ampia quello che stavo vivendo, un’opportunità quasi unica di raccontare cose stesse succedendo in tante parti del mondo. Ed effettivamente che via via, vivevo queste avventure, passavano i mesi e mi trovavo ad affrontare situazioni spesso non soltanto drammatiche ma anche surreali, divertenti, quasi paranormali in alcune situazioni, mi sono così convinto che fosse necessario mettere nero su bianco un racconto più vasto ma anche divertente, leggero, emozionante oltre che anche per certi versi, drammatico.
Quei nove lunghi mesi di pandemia li hai vissuti non solo in compagnia di due peluche ma anche di altri personaggi, i coprotagonisti di questo viaggio. Dietro alle quinte del tuo lavoro da “inviato speciale”, queste figure ti hanno supportato nella ricerca delle storie da raccontare ma allo stesso tempo, sono diventati per te una sorta di angeli custodi di fronte a situazioni spesso pericolose, sono diventati la tua famiglia in quel periodo di emergenza sanitaria…
L’anno dell’alpaca ha vari piani di lettura che è quello per esempio, di usi e costumi di popolazioni lontane, c’è quello dell’aspetto più sanitario della pandemia e poi c’è anche questo elemento di coralità. Ci sono tanti personaggi che intervengono, a partire dai due peluches che danno il titolo a questo libro, perché l’alpaca è di fatto un souvenir che compro durante l’inizio di questa esperienza ed avventura in Perù che poi resta nel mio zaino per nove lunghi mesi, tant’è che comincio a umanizzarlo e a parlarci quasi, a chiedergli consigli e a tenerla come amica, così come l’altro peluche. Sono le mie compagne di viaggio. E poi ci sono tutti coloro che aiutano la vita del giornalista inviato, sono i collaboratori locali, i cosiddetti producer o fixer, sono semplicemente angeli custodi. Altro elemento di interesse secondo me per chi legge, è scoprire come lavora un inviato, soprattutto in località pericolose, periferiche, marginali, dove anche tirare fuori una telecamera, può essere rischioso per la propria vita; per cui avere delle persone che ti supportano, che ti “tolgono dai guai” è come avere un angelo custode ed allora si crea un rapporto quasi di familiarità con loro, a fronte della lontananza di quel periodo dai propri affetti e la necessità di trovare nuovi rapporti sociali.
“L’anno dell’alpaca” ha avuto il patrocinio di Unicef. Questo perché le storie che racconti ruotano attorno a soggetti fragili come anziani, bambini. Sono proprio quest’ultimi che purtroppo con la pandemia, si sono dovuti scontrare con condizioni di vita sempre peggiori, mentre altri con la loro invettiva, hanno trovato forme di riscatto sociale…
Ne “L’anno dell’alpaca” mi piace concentrarmi su quelli che sono i più deboli che sono, ovviamente i bambini, così come gli anziani e quindi le fasce che soffrono di più le grandi tragedie. Ricordiamoci che la pandemia è stata ed è soprattutto un dramma economico oltre che sanitario, perché le conseguenze economiche nei paesi più poveri sono gigantesche, ora poi si è aggiunta anche la guerra e di conseguenza proprio i più piccoli sono piombati in una situazione sempre più drammatica. Sono contento che l’Unicef abbia accettato il patrocinio de “L’anno dell’alpaca”, proprio perché questo rappresenta un premio per la mia scrittura per aver saputo cogliere una serie di storie che hanno a che fare con i minori. Ci sono però anche dei minori che in quel periodo hanno saputo tirare fuori il meglio di sè e sono riusciti a trovare attraverso l’ingegno e doti inaspettate (anche se in realtà i bambini hanno capacità di resilienza forse superiori anche all’adulto), di trovare delle soluzioni alternative. E’ il caso di una bambina di Barcellona, Arlet, che riesce addirittura a raccogliere migliaia di euro in fondi da destinare per la lotta contro il Covid, inventandosi un’idea di marketing attraverso i social. Così da un lutto che aveva subito, riesce a trovare un modo per tenersi impegnata e per trovare fondi per la ricerca. Il patrocinio con l’Unicef è stato un punto di partenza che poi si è ulteriormente rafforzato con una serie di collaborazioni; in Afghanistan, come inviato della Rai, ho avuto modo di vedere come lavorano in territori molto complicati, come operano sul territorio, ad esempio, aiutando i bambini denutriti. Una collaborazione poi proseguita anche in Ucraina.
La carrellata dei tuoi scatti fotografici, chiude il libro, come fosse un album dei ricordi…
Si ed è anche un elemento in più per il lettore per orientarsi e per cristallizzare meglio alcune scene che io descrivo nel libro, perché tutte le foto raccontano dei capitoli molto importanti per me, forse dei focus centrali de “L’anno dell’alpaca”; quindi essendo anche un fotografo, era importante aggiungere questa bella galleria alla fine del libro, dando l’opportunità a chi stava immaginando certi volti e certe storie, poterle vedere effettivamente come sono state scattate.
In questi anni ti sei occupato dei fatti più importanti di cronaca italiana ed estera, in ultimo la guerra in Ucraina. Nei tuoi reportage, racconti le storie degli ultimi, dando voce a chi non ne ha. In una precedente intervista, ad esempio, hai dichiarato che il “modello all news” non fa per te, proprio perché per il tuo lavoro sul campo, cerchi di raccontare delle storie, trovando una chiave di lettura diversa, arrivando ad una visione che è più vicina alla realtà delle cose e cercando anche in alcuni casi di fronte a situazioni drammatiche, di alleggerirle, che è un po’ lo stile che adotti nella scrittura de “L’anno dell’Alpaca”…
Credo che il lavoro giornalistico si possa poi modellare in modi diversi. C’è il racconto puramente di cronaca che va dentro un telegiornale che per forza di cose è un racconto molto asettico e molto sulle notizie e che non lascia spazio ad altri elementi. Poi però ci sono altri strumenti anche nuovi, come i social, che in qualche modo permettono al giornalista di raccontare altro. C’è molto interesse anche in Italia per empatizzare con il dramma delle persone che si trovano dentro un contesto di guerra, poter oltre che raccontare i fatti purtroppo di morte e disperazione, far vedere che esiste anche un aspetto a volte divertente, ironico, momenti di leggerezza, per dare l’idea di quanto le persone riescano ad essere resilienti, a superare le difficoltà con un sorriso, a vivere e sopravvivere nonostante tutto; dare quindi, un po’ di speranza a chi è a casa e a coloro che mi raccontano certi fatti che lì per lì mi trovano divertito in un contesto complicato. A mio parere, c’è sempre spazio per alleggerire e per avvicinare le persone ad un tema e far si che quest’ultime, seguano quel tema senza abbandonarlo, come spesso purtroppo succede dopo un mese di guerra, in cui si tende a dimenticare. Rendere umane quelle persone, raccontarne a volte anche gli aspetti laterali rispetto al dramma centrale, può aiutare a tenere viva l’attenzione.
Covid e guerra hanno contributo seppur in maniera diversa, a riscoprire quello che è il giornalismo sul campo?
Lo sostengo e lo ripeto sempre perché è stata un’occasione unica che ha il giornalismo italiano di riscoprire un mestiere che era stato quasi dimenticato, ovvero quello del giornalismo sul campo dell’inviato. La gente si è accorta che c’è bisogno di queste figure, di giornalisti giovani, nuove generazioni, dando l’opportunità a chi vuole affacciarsi a questo mestiere, di uscire dalle redazioni e raccontare quello che c’è fuori, perché c’è tanto da raccontare sia nelle periferie italiane, sia nel mondo. In ogni caso, non c’è bisogno di andare dall’altra parte del mondo per trovare delle storie che abbiano un impatto sulla società. Perciò credo sia stata un’occasione per il grande pubblico di riscoprire la necessità di questo tipo di racconto. Speriamo sia un’occasione che verrà colta o venga accolta dai network.
VIDEO CON ALCUNI MOMENTI SALIENTI DELLA PRESENTAZIONE: