di Caterina Capponi*
La riflessione sulla “questione meridionale” – che risale all’epoca risorgimentale – continua ad essere di viva attualità, risultando tutt’ora irrisolti i problemi di natura politica , sociale, economica e sanitaria che l’hanno da sempre caratterizzata .
Già all’indomani dell’Unità d’Italia si erano profilati i tratti di tale spinosa vicenda, manifestati, tra l’altro, alla luce di una netta contrapposizione tra le regioni del Nord e quelle del Sud del paese.
Era sin troppo noto, come la maggior parte della popolazione meridionale fosse rimasta estranea ai programmi di rivoluzione nazionale, circostanza che Ippolito Nievo (testimone nonché protagonista diretto della spedizione dei Mille) evidenziò assai bene parlando di un limite “elitario” al Risorgimento. “È tempo di dire la verità e di dirla intera – egli scrive:
Se ne togliete le poche popolazioni industriali (che sono eccezioni in Italia) la grande maggioranza della nazione illitterata, il volgo campagnuolo segue svogliato il progresso delle menti elevate”. Parole con cui l’autore indicava come soluzione, per realizzare una vera nazione italiana, il coinvolgimento del popolo sovrano.
Un programma riformatore delle condizioni di miseria in cui versava il meridione, dunque, invocato anche alla luce della denuncia, sia di Villari che di molti intellettuali toscani.
Non a caso, già la classe dirigente di allora, si rivelò abbastanza inerte e incapace di fronte allo strapotere dei latifondisti egemoni, a tal punto che nemmeno la macchina amministrativa del nuovo Stato fu in grado di salvaguardare, dall’inefficienza, dalla corruzione, dal clientelarismo.
A partire dagli anni ’50 del Novecento si avvia invece la stagione dei c.d. “interventi straordinari” per il Sud, inaugurata con la creazione della Cassa per il Mezzogiorno.
Pasquale Saraceno fautore di un’autentica politica “meridionalista”, avvertiva già allora quell’urgente necessità, di porre la questione dell’unificazione economica, come problema anche di unificazione sul piano politico ed etico-sociale, in una visione lungimirante.
La breve digressione storica, si presta, al compito arduo di fornire una riflessione quanto più realistica sulla “Questione Sanitaria Calabrese”, contemperando origini, cause remote e recenti responsabilità nazionali, ma anche doveri e obblighi di una classe politica e dirigenziale calabrese, continuamente attenzionata, per le lacune prodotte all’interno delle istituzioni pubbliche, incapace almeno da vent’anni di garantire un buon funzionamento dell’amministrazione e dello stato sociale.
Si ritorni ad affrontare temi quale centralismo e decentramento, in un’ottica diversa dal dibattito postunitario e costituzionale, il modello fortemente accentrato non sia necessariamente inteso come controllo sulla vita democratica e il decentramento come l’unico modo per attribuire slancio alle rivendicazioni popolari o alle prerogative amministrative degli enti locali.
Senza entrare nella farraginosità legislativa, si spieghi, pertanto ai cittadini come dalla Legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 la Sanità, divenendo materia concorrente, si delegò a Regioni e Province autonome, che si occuparono dell’organizzazione e della gestione dei servizi sanitari.
Entro questa cornice legislativa, la vicenda sanitaria nazionale divenne protagonista di un meccanismo di differenziazione delle prestazioni sanitarie, non sempre eque sul tutto il territorio, si pensi proprio al caso della Calabria, che si ritrovò a subire sia le criticità dell’impianto, la cattiva politica, la mala gestione amministrativa e sanitaria, producendo come effetto più deficit e ineguaglianza in una regione già storicamente vessata .
Bisogna allora reagire con intelligenza, senza farsi manipolare. Andare avanti e continuare a rimanere in Calabria immaginando un futuro migliore e lottando per ciò che ci è costituzionalmente dovuto.
*: docente