RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
La celeberrima massima di Marx per cui la storia ripete in forma di farsa quelle che sono state tragedie potrebbe ormai essere considerata una trivialità, ma l’inesauribile ironia con cui questo tema viene variato nelle vicende umane rende sempre stimolante la riflessione su di esso.
Era da tempo chiaro che la magistratura nutrisse il proprio prestigio con il merito dei santi laici Falcone, Borsellino, Chinnici, Scopelliti e di molti altri martiri uccisi dalla mafia e dal terrorismo tra gli anni ’70 e l’ultimo decennio del ‘900: tale tesoro di meriti poteva essere trasferito ai colleghi per solidarietà corporativa, quindi ancor più facilmente di quanto i fratacchioni rinascimentali trasferissero per denaro i meriti dei santi propriamente detti a chi acquistava le indulgenze. A che livelli di degenerazione il sistema di potere che innerva l’ordine giudiziario potesse arrivare dietro la facciata di rispettabilità costruita con il sacrificio di tante vite era però solo supposto, fino a poco più di un anno fa.
Il telefono del dott. Palamara, spalancato dal trojan come il mitico vaso da Pandora, non ha certo liberato i demoni di tutti i vizi, ma semplicemente palesato quanto finora, benché banale, era occulto o, meglio, occultato: santi ce ne sono ben pochi, siamo quasi tutti peccatori e, di solito, pecca di più chi è più tentato da potere, prestigio e denaro. Proprio la fine della rappresentazione oleografica di un ordine giudiziario puro come il giglio e coraggioso quanto una congrega di cavalieri medievali votati alla morte nel corso delle crociate è all’origine della farsa cui accennavamo all’inizio.
Dopo la morte di Borrelli e D’Ambrosio, l’eclissi politica di Di Pietro e lo scolorire nella scialba ed evanescente retorica da intellettuale della personalità di Colombo, l’ultimo esponente del vecchio pool milanese di Mani Pulite a far parlare ancora di sé, continuando a impersonare il ruolo del magistrato-tribuno, è Pier Camillo Davigo, che coniuga brillantemente l’intransigenza del cittadino Robespierre con la verve di uno stand up comedian. Proprio Davigo giovedì scorso durante un confronto televisivo con l’avvocato penalista Caiazza è stato vittima del farsesco ricomparire sulla scena pubblica degli argomenti più classici della prima difesa di Craxi durante lo scandalo di Tangentopoli: se il leader socialista parlò a suo tempo di mariuolo, Davigo non indulgendo ai dialettalismi, ma facendo un po’ di violenza alla lingua italiana, parla di una ristretta minoranza di magistrati “per male” (ovviamente da contrapporre ai magistrati per bene), rivestendo di efficacia retorica la banalità assoluta che come in tutti gli ambienti (compreso quello politico) il comportamento medio non è censurabile: non ha approfondito il curioso fenomeno, pur da lui ammesso, per cui i “per male” si concentrerebbero ai vertici della magistratura associata, ma il tempo era poco. Poi il registro cambia leggermente e Davigo ammette che il carrierismo è diffuso nella magistratura; la colpa però non è dei magistrati, ma della politica! Lo zoppicante argomento portato a sostegno della bislacca tesi è che, siccome gli incarichi direttivi, grazie ad una riforma voluta dai politici, sono da alcuni anni temporanei e non più sine die, ci si candida con grande facilità e si cerca ogni mezzo per farsi designare, pur di rimanere in sella il più a lungo possibile. A questo punto il nostro giudice di cassazione, che ha la sana abitudine di parlar bene di se stesso, aggiunge una postilla che sembra avere la sola funzione di svelarci un pezzo della sua biografia: “io ho fatto richiesta di incarichi direttivi a 63 anni, oggi ci sono magistrati che li richiedono a 38”. Non si capisce bene cosa c’entri con il discorso, ma verrebbe da dire: buono a sapersi. Sembra di sentire l’eco delle ammissioni craxiane sul finanziamento illecito che, sì, esisteva, sì, era sempre esistito, ma in fondo non era colpa dei politici, ma del sistema nel suo complesso, della nascita stessa della democrazia repubblicana, favorita da abbondanti flussi di fondi esteri per sostenere i partiti rispettivamente vicini ai due fronti della cortina di ferro. Certo, le tangenti sono reati e il carrierismo in se stesso non lo è, comunque dissolvere le responsabilità individuali in disfunzioni del sistema è sempre una bella strategia retorica…Eppoi c’è un’altra grande differenza tra il Craxi del ’92 e il Davigo di qualche giorno fa: quest’ultimo ha ribadito più e più volte che lui con il “marcio” del sistema non ha nulla a che fare (Palamara è uno che una volta gli ha dato un passaggio in macchina per caso). Noi siamo certi che potrebbe anche giurarlo, senza timore che i fatti si incarichino di dichiararlo spergiuro (semicit.)…
Turati e Ulianov