di Adelina B. Scorda
LOCRI – Sono le storie di Celestino Maria Fava ammazzato nelle campagne di Palizzi nel 1986, quella di Filippo Ceravolo ucciso dalla ‘ndrangheta nel 2012 delle Serre vibonesi massacrato a colpi di fucile calibro 12.
Due decenni di lotte, marce, proteste, silenzi, legano dallo stesso filo rosso le vite spezzate di Filippo e Celestino che ancora oggi chiedono che giustizia sia fatta. Sono le storie a noi sconosciute, noi che custodiamo la memoria di Rocco Gatto, del Brigadiere Marino, di Lollò Cartisano e di Gianluca Congiusta, questi solo alcuni dei nomi e delle storie che ci hanno toccato, che sentiamo un po’ anche nostre.
Ma dai primi esempi di opposizione istituzionale alla ‘ndrangheta, come quello avvenuto a Gioiosa Ionica che per volontà di un sindaco coraggioso, Francesco Modafferi, sotto la cui guida il consiglio comunale delibera di costituirsi, primo in Italia, parte civile nel processo contro i presunti esecutori dell’omicidio di Rocco Gatto freddato il 12 marzo del 1977, poco è cambiato. Da quella scritta a quelle cancellate suoi muri di a Locri il passo è breve.
(Platí 1992 archivio Gigi Romano fotogiornalismo)
Quella che segue o che in mezzo è una storia di battaglie civili e umane, delle grandi manifestazioni di piazza, dell’ostinazione e del coraggio.
Il coraggio di lottare del padre di Filipo Ceravolo o della famiglia di Celestino Maria Fava. Le loro storie hanno molto in comune, si trovarono entrambi nel posto sbagliato al momento sbagliato
La mattina del 29 novembre 1996, nelle campagne di Palizzi, Celestino Fava è colpevole di esistere. Di essere spuntato come un elemento inatteso tra i piani di chi, quel giorno e quell’ora, li aveva scelti da tempo per ammazzare Nino Moio, l’amico che per un caso sta accompagnando. E’ una “variabile” umana che non merita ripensamenti, che non riceve salvacondotti o sconti. Lo troveranno ad un centinaio di metri di distanza da Moio, uccisi entrambi a colpi di fucile. La sua morte archiviata per mancanze di prove, ma c’è chi sa e chi ha visto, ripete ancora oggi con rabbia mista a speranza la zia di Celestino “Mi auguro che quel qualcuno sia mosso da un briciolo di rimorso, quel tanto che basta per far venire fuori qualche nuovo indizio, che possa portare alla riapertura del caso, i suoi assassini non possono rimanere impuniti. Celestino è stato riconosciuto vittima innocente della criminalità organizzata, ma questo non basta, dopo 20anni siamo qui a chiedere ancora verità e giustizia per un ragazzo a cui è stata strappata la vita”.
Filippo Ceravolo, ha solo 19 anni, ucciso in un agguato il 25 ottobre 2012, coinvolto suo malgrado nella terribile “faida dei boschi” o delle tre province. Due gli schieramenti contrapposti: da un lato i Vallelunga di Serra San Bruno alleati dei Turrà di Guardavalle, dall’altro un vasto cartello, riunito sotto la benedizione del boss di Gioiosa Ionica, Giuseppe Ierinò, comprendente gli Emanuele detti strazzi di Mongiana, gli Emanuele di Santa Caterina sullo ionio, i Ciconte di Serra San Bruno e i Nardo di Sorianello.
Sono circa le 22 e Filippo si trova sulla Fiat Punto guidata da Domenico Tassone, imparentato con gli Emanuele, aveva chiesto passaggio, ci racconta il padre, poi l’agguato. Filippo muore poche ore dopo in ospedale a causa di due colpi alla testa. Dopo quasi cinque anni la famiglia di Filippo chiede ancora giustizia, ancora una volta un assassinio archiviato per mancanza di prove, nessuno parla le bocche sono cucite dalla paura. Oggi la famiglia di Filippo è in piazza in mano un cartellone, che riprende in grande un articolo di giornale, un titolo che racconta il dolore, sta scritto: “Un’archiviazione che fa troppo male”. Lotta il papà di Filippo ogni giorno insieme a Libera per non lasciare nel silenzio la morte del figlio, sposando l’impegno di una battaglia costante contro la ’ndrangheta, contro ogni tipo di violenza, e corruzione.
Per ricordare Filippo e Celestino e tutti gli altri 900 nomi, e non solo oggi in piazza sono scese 25 mila persone, decine di bandiere, striscioni. Spicca fra la folla il papillon di Mario Congiusta di un verde speranza brillante, lui che non si stanca di chiedere ancora e ancora giustizia. Procede fiera invece una donna, è la moglie del brigadiere Marino ucciso a Bovalino il 9 luglio del 1990, indossa una camicia bianca con una frase: Orgogliosa di aver sposato uno sbirro”.