di Gianluca Albanese
REGGIO CALABRIA – La sua dichiarazione spontanea ha costituito il momento più coinvolgente dell’odierna udienza celebrata davanti alla Corte di Appello di Reggio Calabria (collegio composto dai giudici Tarzia, Barillà e Di Landro) nel processo denominato “Mandamento Ionico” e celebrato con rito abbreviato.
Ci riferiamo all’avvocato penalista Pino Mammoliti, condannato in primo grado a tre anni di reclusione con una sentenza che fece molto discutere, vuoi per la fama del legale locrese (da decenni impegnato in politica e nel sociale) e vuoi per le scarne motivazioni addotte che, secondo Mammoliti, evidenziarono il fatto che il giudice di primo grado si sarebbe limitato a recepire in maniera acritica le ragioni dell’accusa, secondo la quale, l’imputato “eccellente” sarebbe l’artefice della pax mafiosa tra le principali consorterie mafiose locali: quella dei Cordì e quella dei Cataldo.
Oggi, prima della requisitoria del Procuratore Generale Francesco Tedesco, Mammoliti ha chiesto (e ottenuto) di poter rendere una dichiarazione spontanea.
“Sono stato indagato per sette anni -ha esordito – e quello che mi lascia un po’ basito non è una mia indignazione di fronte a una sia pur legittima attività investigativa, quanto l’atteggiamento che ancora si registra in quest’aula nei miei confronti. La cosa che mi fece riflettere rispetto all’animus accusatorio nei miei confronti fu la prima domanda che mi venne rivolta in Procura in cui mi si chiese conto dei miei rapporti coi coimputati Cataldo Francesco e Cataldo Antonio, saltando a piè pari nove anni di attività processuale come difensore dei due fratelli Cataldo. Era un rapporto professionale di lunga data e nulla di più. L’iscrizione del primo reato avvenne sulle supposizioni di un collaboratore di giustizia del quale ho più volte ribadito i rapporti conflittuali (dovute anche a un rapporto sentimentale) e poi nel processo “Shark” in cui io diedi il mio contributo a favore della tesi accusatoria, convincendo mio cognato – Luca Rodinò – a collaborare con gli inquirenti. Molte furono le condanne a carico di adepti dei miei assistiti e di appartenenti al loro gruppo concorrente di allora, ovvero i Cataldo. La supposizione del pentito Oppedisano, dunque, mi colloca in un ruolo centrale di una vicenda che è stata più volte scardinata nelle aule di giustizia, con archiviazione delle mie posizioni.
Ora, arriva questa ipotesi “fantozziana” rispetto al mio modo di intendere la vita, che è quella di intralcio della giustizia. Nel turbinio di ipotesi dell’azione investigativa nei miei confronti c’è quella di aver esercitato presunte pressioni nei processi e quella di scambio elettorale esponenti del clan Cataldo: una sorta di “macedonia” di ipotesi che annaspavano tutte in un certo flusso di inconcludenza e inconcretezza. Tutta questa galassia di ipotesi accusative di dissolse fino a risolversi in ipotesi di favoreggiamento.
Dopo sette anni di costosa e dispendiosa attività investigativa a mio carico si arrivò, in primo grado, a formulare una richiesta di condanna: purchè io c’entrassi. Le ipotesi erano surreali: secondo la tesi accusatoria avrei preso e usato un dato secretato, senza sapere che io ero il primo degli indagati. L’ordinanza del Gip Foti ha messo subito in chiaro che non c’era gravità dei dati investigativi. Avrei detto ai miei assistiti che c’erano delle attività investigative in corso, quando è lo stesso “opinionista elettorale” – il riferimento è a Cataldo Francesco – ha detto testualmente “Questo animale non mi ha detto niente”, riferendosi a me. Nulla avevo confidato, né niente potevo dire. Nemmeno nel caso di Marando Isidoro.
E poi c’è la vicenda legata a un’iniziativa che davvero va dal rocambolesco all’incredibile e che mi vuole a bordo di un’autovettura condotta da Cataldo Francesco in cui lo stesso mi dice che vuole denunciare la presenza di microspie e la mia presenza muta viene interpretata come atto di collusività. Abbiamo fatto il tratto tra il mio studio e la caserma dei Carabinieri e in quel breve percorso il mio silenzio sarebbe stato interpretato contro di me.
Ora provo stanchezza e vergogna, nonostante l’affetto che mi è stato manifestato dei colleghi del foro di Locri e di quelli viciniori, ma ora vi chiedo una maggiore attenzione rispetto al mio caso, perché voglio continuare a non avere vergogna e a vivere una vita serena.
Non dico meccanicamente, come fanno tutti ‘ho fiducia nella giustizia’: dico che non ho fiducia in questa parte di magistratura inquirente che non può rendere tutti uguali. Avrei difficoltà ad accettare una sentenza di condanna, non lo nego. Ma se così non sarà, vorrei che si ristabilisse l’equilibrio naturale nei rapporti tra un avvocato, i suoi clienti e la magistratura.
Ai miei giovani colleghi – ha concluso – chiedo di fare questo mestiere mettendoci il cuore”.
Nella requisitoria, il Procuratore Generale ha ricordato che “La Procura ha contestato il concorso esterno in associazione mafiosa, mettendolo in relazione con l’attività politica del Mammoliti, ipotizzando che il suo successo elettorale fosse anche dovuto agli interessi di una cosca di ‘ndrangheta. Non vedo alcun accanimento nei suoi confronti, ma solo fatti e intercettazioni. Lui dice che il contenuto era riferito ai normali rapporti con un cliente. Non intendo dire null’altro”.
L’udienza è stata aggiornata al 28 maggio, quando verrà dato spazio alle arringhe dei difensori.