di Francesco Tuccio
Nel paese arroccato, spalancato come una finestra sul mondo vivemmo la giovinezza, l’età degli immortali. E ci bruciammo come falene impazzite ai suoi ardori.Tempo di sommovimento fu, di fuochi e visioni contrapposti, dei due mondi.
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Quel tempo inciso dal turbinio dei simboli: Che Guevara, Ho Chi Minh, Allende, Jan Palach, Dubcek, Martin Luther King. Kennedy, Krusciov, Giovanni XXIII. Pertini, Berlinguer, Lama, Guido Rossa, Aldo Moro, Moravia, Pasolini, Levi, Levi, don Milani.
Quel tempo segnato dalla girandola dei luoghi: scuole, università, triangolo industriale, grandi città, Reggio Calabria, Eboli, Sud piagato, Sud piegato, Sud ribelle. Autunno caldo, anni di stragi e di piombo. E il paese, adagiato sopore in cima ai contrafforti secolari, tornava a svegliarsi di schianto, destando le tensioni che l’attraversarono e plasmarono tratti memorabili della sua storia.
E noi generazioni, figli della diaspora, dell’ignoranza avita, del gelo e della miseria del dopoguerra, salvati dalla scuola di massa, fummo presi dal gene infuocato della contestazione dissacrante.
Noi planetari con il naso appeso allo sbarco sulla luna e gli occhi rivolti alla terra, ai blocchi della divisione. Ci sentimmo asiatici delle risaie, africani schiavi dell’apartheid, delle bidonville, greci e cileni oppositori delle tirannie, negri dei ghetti delle Americhe, indigeni delle foreste, delle praterie e delle steppe, primitivi dei sud del mondo, roditori della cortina di ferro.
Cercavamo le primavere dei popoli.
Noi marginali, insignificanti. Noi ombelico del mondo delle discussioni accese, infinite, nel cielo di strade di pietra, di vicoli bui e contorti e di piazze affollate, tra le stelle di notti insonni, al lume di lampioni che non colavano ombre.
Noi tra la gente, la nostra gente: emigranti, zappatori, seminatori, raccoglitori d’arance, d’olive, d’uve, di gelsomini, contadini lungo le pieghe della terra e i pianori delle aie; operai dei cantieri nei meandri delle fiumare e dei boschi; artigiani, commercianti, alluvionati delle borgate e del centro. Entrammo in umili case e tuguri per le battaglie civili, diventammo divorzisti, abortisti, femministi. Percorremmo le strade dalla marina alla montagna, delle città.
Noi non fummo, noi scegliemmo l’appartenenza, la contraddizione, la sconfitta della terza via. Il nostro tempo immortale fu effimero, caduco, ma non vano. Non si può scambiare. Non si può perdere l’identitaria fierezza d’averlo voluto, vissuto immersi nelle gioie e nelle amarezze. Oggi saremmo vite al crepuscolo senza anima, senza infinita giovinezza.