di Gianluca Albanese
LOCRI – «Io questo l’ho fatto, lo faccio e lo continuerò a fare, perché non mi sento così diverso (e non voglio, ripeto, scomodare nessuno) da Mimmo Lucano che cerca di proteggere extracomunitari. Io cerco di proteggere nella mia comunità le aree a rischio che possono rimanere coinvolte e contaminate in vicende giudiziarie, non certo per eluderle ma per evitarle, trovare il modo di riscattare la loro vita».
E’ un Pino Mammoliti in versione “redentore”, quello che risponde alle domande del pubblico ministero Antonio De Bernardo, durante l’interrogatorio reso nell’ambito del processo che scaturisce dall’operazione nota come “Mandamento ionico”, a carico di centinaia di soggetti ritenuti intranei o contigui alle cosche di ‘ndrangheta del versante ionico reggino.
Davanti al giudice Filippo Aragona, Mammoliti, nelle scorse settimane, è stato sottoposto all’esame dei propri difensori Rosario Scarfò e Domenico Piccolo, e al controesame da parte del P.M. De Bernardo, che, a conclusione dell’interrogatorio, gli ha chiesto «Per quale motivo non si è posto il problema di intralciare le investigazioni che erano evidentemente in corso?».
Come si ricorderà, infatti, Mammoliti è accusato di essere andato oltre il suo mandato professionale di difensore di alcuni soggetti ritenuti intranei alle cosche di ‘ndrangheta di Locri, rivelando loro, dal 2009 in poi, di essere soggetti a indagini da parte degli inquirenti, che sarebbero presto sfociate in operazioni di custodia cautelare.
Questi, in dettaglio, gli addebiti a suo carico, per come riportati nel decreto di fermo dell’operazione “Mandamento Ionico”:
«MAMMOLITI Giuseppe
J6) delitto previsto e punito dagli artt. 110, 416 bis c.p., per avere concretamente contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento, alla conservazione ed alla realizzazione degli scopi dell’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta, di cui al capo A) – operante sul territorio della provincia di Reggio Calabria, del territorio nazionale ed estero costituita da molte decine di locali, articolate in tre mandamenti e con organo di vertice denominato “Provincia”- ed in particolare della sua articolazione denominata “locale” di Locri, operante nel territorio ricadente nel Comune di Platì e zone limitrofe, finalizzata – mediante la forza intimidatrice del vincolo associativo e della conseguente condizione di assoggettamento ed omertà della cittadinanza – al controllo mafioso del territorio sopra indicato ed alla commissione di una serie indeterminata di delitti, tra cui estorsioni, danneggiamenti, delitti contro la persona, detenzione e porto illegale di armi, intestazione fittizia di attività commerciali a prestanome, riciclaggio, traffico di sostanze stupefacenti, nonché all’acquisizione in modo diretto o indiretto della gestione o comunque del controllo di attività economiche, all’ingerenza nella vita politica locale ed al conseguimento di profitti e vantaggi ingiusti per sé o per altri. In particolare, avendo instaurato con la ‘ndrangheta (e segnatamente con la cosca Cataldo di Locri, anche mediante relazioni dirette e personali con esponenti di vertice del sodalizio, quali Cataldo Antonio e Cataldo Francesco) uno stabile rapporto di tipo collusivo, mettendo a disposizione la sua attività di professionista (avvocato), comunicava e diffondeva notizie riservate, ottenute attraverso appoggi e contatti presso soggetti istituzionali non identificati, relative ad indagini in corso ed a nuove collaborazioni di giustizia, veicolava all’esterno messaggi e comunicazioni provenienti dai soggetti detenuti, concordava e suggeriva strategie operative (esulanti da qualsivoglia mandato difensivo), così oggettivamente rafforzando il pervasivo potere di infiltrazione nell’economia, la potenzialità di elusione delle investigazioni dell’Autorità e la capacità di controllo del territorio della cosca Cataldo, da cui riceveva in cambio supporto nella consultazione elettorale comunale in cui si candidava».
Tornando all’interrogatorio, nel rispondere al suo difensore Rosario Scarfò, Pino Mammoliti, ex “enfant prodige” della Democrazia Cristiana della provincia di Reggio Calabria, ha dapprima ripercorso le tappe fondamentali della propria carriera politica, nel corso della quale ha rivestito diverse cariche istituzionali, ottenendo di volta in volta un consenso elettorale intorno ai 500 voti.
Mammoliti, infatti, è stato eletto consigliere comunale per la prima volta nel 1986, all’età di 21 anni, quando ancora era uno studente di Giurisprudenza, risultando eletto e ricoprendo l’incarico di capogruppo della Dc in consiglio comunale. Successivamente, ricoprì, come ricordato nel corso dell’interrogatorio, ruoli di maggioranza all’interno del civico consesso locrese, fino al 2006, quando si candidò a sindaco nella lista “Solidarietà Popolare”, risultata sconfitta dalla coalizione capeggiata da Francesco Macrì, che fu eletto sindaco con due terzi dei consensi elettorali.
Un bacino elettorale consistente, quello di Mammoliti, divenuto poi avvocato penalista, professione da sempre in cima alle sue aspirazioni, che lo stesso, durante l’esame, ha motivato con i numerosi contatti politici derivanti dall’elezione negli organismi studenteschi del liceo scientifico “Zaleuco” di Locri che aveva frequentato da ragazzo, dai ruoli di primo piano nella Democrazia Cristiana provinciale, della quale fu anche vice segretario, e dalle relazioni strette dal compianto padre Franco, anch’egli ex amministratore comunale di Locri e fondatore dell’Ascoa, sindacato datoriale dei commercianti e degli artigiani calabresi.
Nel 1998 Mammoliti fu accusato di voto di scambio nell’ambito dell’operazione “Primavera” condotta contro le cosche di ‘ndrangheta di Locri, ma venne immediatamente prosciolto perché nel corso dell’udienza preliminare, l’accusa non resse al vaglio del Gip.
Ma non sono solo questi i particolari rivelati nel corso dell’interrogatorio, visto che Mammoliti ha candidamente confessato di aver sperperato circa 300 milioni di lire nel corso della sua attività politica, per lo più provenienti dal patrimonio di famiglia «Soprattutto – ha ricordato nel corso dell’esame – quando ci fu l’operazione cosiddetta “Shark”, per la quale – ha dichiarato in aula bunker – io sollecitai la costituzione di Parte Civile in quel procedimento, di mio cognato, del mio ex cognato Luca Rodinò, e agli albori lo avevo invitato a collaborare con i Carabinieri per smantellare una rete di usurai».
L’avvocato ha anche ricordato di aver subito sette attentati, dall’incendio della propria auto nel Natale del 1996, agli spari sul portone di casa prima delle elezioni provinciali, all’invio di munizioni, fino al posizionamento, nel 2002 di una bomba di cinque chili di tritolo sotto la sua autovettura parcheggiata davanti casa e, non ultima, una lettera anonima ricevuta dopo la sentenza dell’operazione “Shark”.
Difensore di numerosi soggetti, compresi esponenti dei clan Cordì e Cataldo di Locri, a Mammoliti si muove spesso l’appunto di non frapporre tra sé e i propri assistiti la scrivania, ovvero di non mantenere quel distacco professionale che sarebbe consono vista l’attività svolta.
«Se per alcune persone ero un riferimento dal punto di vista tecnico – ha spiegato Mammoliti – lo ero di più dal punto di vista umano perché spesso, ma come spesso succede alla platea dei legali, nessuno di noi esercita questa professione sganciandosi da quella che poi è la centralità umana, quindi un trasporto emotivo nelle vicende che affliggono i nostri assistiti spesso si registra».
L’imputato ha aggiunto di aver aiutato spesso persone in difficoltà economica, in particolare ammalati, e di aver propiziato percorsi di «Metamorfosi e riscatto» di alcuni giovani appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta, alcuni dei quali hanno poi intrapreso percorsi di studi lontano da Locri, avviando, successivamente, carriere professionali.
Accusato da un pentito di aver favorito la pace tra le cosche di Locri dopo una lunga faida, Mammoliti annovera, tra i suoi assistiti, il boss Cataldo Antonio classe ’56 che, stando a quanto dichiarato dall’avvocato in sede d’interrogatorio, avrebbe manifestato l’intenzione di cambiare vita e di cercare lavoro anche lontano da Locri abiurando, di fatto, l’appartenenza alla criminalità organizzata, mentre lo stesso Mammoliti ha dichiarato di essersi reso protagonista di un’iniziativa presso il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo aver colto, dalla sua prospettiva «Disarmonie da me colte rispetto a decisioni giurisdizionali» riguardanti Cataldo Francesco, al quale, successivamente, chiese una dazione di denaro quantificabile in 500 euro che, secondo l’accusa, sarebbe servita a finanziare la campagna elettorale di Mammoliti alle elezioni comunali del 2013, mentre quest’ultimo, nel corso dell’interrogatorio, ha chiarito che si trattavano di somme a lui spettanti a fronte di prestazioni professionali, aggiungendo che lo stesso Cataldo Francesco avrebbe sostenuto elettoralmente una lista diversa da quella in cui Mammoliti si era candidato a consigliere.
Mammoliti, inoltre, aveva chiesto al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di autosospendersi dalla propria attività dopo aver appreso di essere imputato in un procedimento penale, ma, come ha rivelato nel corso dell’interrogatorio, la sua richiesta non venne accolta perché l’Ordine rispose che non esiste l’istituto dell’autosospensione.
IL CONTROESAME DEL P.M. DE BERNARDO
Ha riguardato solo qualche richiesta di chiarimento, visto che il grosso dei contenuti di suo interesse è possibile rinvenirlo nei verbali dell’interrogatorio reso dinanzi alla Procura della Repubblica di Reggio Calabria.
In particolare, i chiarimenti hanno riguardato i rapporti umani e professionali di Pino Mammoliti con alcuni esponenti delle famiglie di ‘ndrangheta di Locri, alcuni dei quali sono suoi assistiti, aggiungendo – ci riferiamo a Mammoliti – di non essere al corrente del fatto che Cataldo Francesco (che Mammoliti ha dichiarato di aver accompagnato una volta dai Carabinieri) fosse in grado di “silenziare” o riattivare le microspie che erano state piazzate dagli inquirenti nelle sua autovettura di proprietà.
LA RICHIESTA DEL P.M. AL TERMINE DELLA REQUISITORIA
Le motivazioni addotte da Pino Mammoliti nel corso dell’interrogatorio, evidentemente non hanno convinto il P.M. De Bernardo, che al termine di una lunga requisitoria, nel corso della quale ha parlato delle vicende connesse alla rideterminazione degli equilibri in seno alla ‘ndrangheta locrese, dopo la pax tra le consorterie dei Cataldo e dei Cordì, ha chiesto la condanna a 12 anni di reclusione per Pino Mammoliti chiarendo, tra l’altro che «Il cuore della contestazione che oggi si muove all’avvocato Mammoliti, come dire, rispetto al quale le altre vicende, compreso l’appoggio elettorale o il ruolo politico dell’avvocato Mammoliti fanno da contorno, è rappresentato da una serie di comunicazioni che l’avvocato Mammoliti fa, non soltanto ai Cataldo, ma come esponenti dell’organizzazione, circa l’esistenza o di possibili e dichiaranti che possono nuocere all’organizzazione, o ad alcuni esponenti dell’organizzazione, o all’esistenza di attività tecniche in corso, oppure alla possibile e imminente esecuzione di provvedimenti giudiziari e quindi all’arresto, diciamo, di soggetti appartenenti all’organizzazione» svolte negli anni 2012-2013, ovvero condotte che secondo la pubblica accusa «non possono essere ridotte» «a comportamenti discutibili sul piano deontologico, perché l’avvocato Mammoliti pone in essere, come dire, una tutela a 360 gradi e che prescinde dai confini del possibile, per quanto abbia un mandato difensivo, e che oggettivamente, come dire, intralcia le attività investigative, o comunque consente, o mette nelle condizioni gli investigati, di eludere le attività investigative stesse» che, sempre secondo l’accusa, Mammoliti avrebbe perpetrato in maniera sistematica e a favore sempre degli stessi soggetti, contestando altresì quello che definisce «un anacronismo insuperabile» rispetto alla cronologia dei fatti per come riportata da Mammoliti nell’interrogatorio.
L’udienza è stata aggiornata a martedì 6 novembre per la conclusione delle Parti Civili e per le arringhe difensive.